laR+ L’intervista

Marco Paolini, contro la solitudine doppiamente ‘Sani!’

Nel disequilibrio generale, il maestro del teatro di narrazione porta in scena un’iniezione di fiducia: giovedì 2 e venerdì 3 febbraio al Teatro Sociale

Marco Paolini
30 gennaio 2023
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È un doppio Paolini quello che arriva a Bellinzona. «Ma io resto anche una settimana se volete», ci dice al telefono. Il suo ‘Sani!’, "tonico contro la solitudine in forma di ballata popolare" (parole sue), fa sosta al Sociale giovedì 2 e venerdì 3 febbraio, sempre alle 20.45, con introduzione allo spettacolo venerdì alle 20 (biglietti su www.ticketcorner.ch e relativi punti vendita, e all’InfoPoint di Bellinzona). Al maestro del teatro di narrazione e al suo castello di carte – la scenografia, simbolo di universale precarietà – si uniscono Saba Anglana (voce) e Lorenzo Monguzzi (chitarra), anche autori delle musiche originali.

Marco Paolini, ricambiamo il suo ‘Sani!’: ce ne spiega la genesi?

‘Sani!’ è un saluto, atavico, infantile, è una storpiatura del latino ‘salus’ che nel dialetto della Valle del Piave, nella quale sono cresciuto, diventava il modo di appellarsi, di salutare, un’espressione che mi è sempre piaciuta ed è rimasta dentro di me come una specie di strato. È un augurio che viene da questo spettacolo sin da quando la pandemia ha bloccato i teatri.

In quel periodo era nato uno spettacolo precedente, ‘Teatro fra parentesi’, una sorta di instant book nel quale usavo pezzi di repertorio e chiacchieravo sul palco ‘qui e ora’, senza personaggi, perché mi sembrava difficile nascondersi dietro a un personaggio in un momento così difficile. Ho sentito che sarebbero servite storie capaci di tenerci insieme. Piano piano, da quelle storie sono nate delle canzoni; alcune storie si sono affinate, altre che divertivano e che erano lì, appunto, ‘tra patentesi’, sono state sostituite da nuove, e il tutto ha preso una forma e una drammaturgia che ricalca il lavoro della ‘Fabbrica del mondo’, dunque una serie di racconti che riguardano noi e i problemi, noi e le crisi, noi e il nostro modo di fronteggiarli. Noi e la nostra – a volte – estrema lentezza nel capire cosa ci stia succedendo.

In ‘Sani!’ è l’elemento autobiografico a legare tra loro – cito dalle note – "momenti di crisi personali e collettivi che hanno cambiato le cose": il suo incontro-scontro con Carmelo Bene, quello tra Reagan e Gorbaciov a Reykjavìk nel 1986, il terremoto del ’76 in Friuli, fino alla pandemia. A lei, personalmente, cosa ha cambiato la vita?

Le fidanzate senz’altro, ma non ne parlo nello spettacolo. Quelle sì che cambiano la vita, perché si va in crisi e casca il mondo addosso. Ma è difficile accorgersi di qualcosa che cambia la vita, solo a posteriori ci si riesce. Mi viene in mente un infortunio sul lavoro: nell’ambito di un altro tipo di teatro, stavo facendo le prove con Gabriele Vacis e mi ruppi una gamba; fui costretto a restare ingessato e lo spettacolo non poté essere fatto. Per mettere a frutto quasi quattro mesi d’immobilità, cominciai a raccontare una storia; da lì non ho più smesso. Che il teatro fosse ‘raccontare delle storie’, non era scritto nei libri che avevo letto, e nessuno dei maestri che avevo frequentato me lo aveva mai detto. C’erano sempre di mezzo delle cose chiamate ‘i personaggi’ e molte azioni fisiche. Era tutta un’altra scuola. L’eventualità, invece, che da un bozzetto si potesse costruire ugualmente qualcosa di molto vivo, ma con il narratore al centro, è accaduta per sbaglio, perché mi sono rotto la gamba. Direi che quella è una cosa che mi ha cambiato la vita, ma che dico a lei perché anche questa, come le fidanzate, nello spettacolo non c’è.

Del suo mestiere ha detto: "Non è improvvisazione, è montaggio": ci vuole spiegare il concetto?

In generale, dietro al concetto di ‘improvvisazione’ c’è una leggenda, quella che le cose appaiano per miracolo nella testa di chi sta parlando, per dono. In realtà, molto spesso, l’improvvisatore è colui che ha un vasto repertorio e decide di passare da un elemento all’altro secondo un ordine non prestabilito, come un musicista jazz. Si passa dunque attraverso degli standard e delle connessioni che sono sorprendenti, che conferiscono freschezza all’uso, standard di una letteratura, un repertorio, un mestiere imparati ben prima. Questa è la chiave, un innesto dal vivo di cose tra loro separate dove le linee per unire i punti vengono costruite al momento. È una parte del mio mestiere, è in un certo senso il suo inizio. ‘Sani!’ lavora su una partitura più fissata.

Paolini maestro del teatro politico, o civile. Uomini e donne di teatro transitati su queste pagine hanno spesso identificato nel portare i giovani a teatro, o il teatro ai giovani, la loro intenzione primaria dopo la lunga chiusura dovuta all’emergenza sanitaria. Quanto questo può accadere in ambiti di teatro civile o politico?

Domanda delle cento pistole, alla quale non si può rispondere, perché è una sfida che si rinnova. La questione non riguarda un genere. Non è che il teatro civile abbia più appeal del musical, anzi, hanno pari dignità, mi creda. Un sano teatro d’evasione può avere più valore di un teatro che si pretende impegnato ma che, ahimè, veicola soltanto buone intenzioni e non raggiunge alcun effetto tangibile. Si può alzare l’asticella quanto si vuole, ma se lo si fa per sé stessi, o per una tribù di persone, allora non si sta facendo teatro, o comunque si sta facendo teatro poco efficace. La sua non è una domanda che preveda una risposta da organizzare quietamente in un’intervista, bensì una domanda per la quale, subito dopo l’intervista, uno si deve chiedere: "C****, ma io cosa ho fatto oggi in quest’ottica?". È la missione. Se vogliamo fotografare la questione in maniera impietosa, dovremmo costringere i teatri a dividere la platea in due: su un lato del corridoio gli over 35, dalla parte opposta gli under 35, lasciando vuote le poltrone al centro. Credo che in questo modo sarebbe abbastanza evidente qual è la realtà delle cose.

Portare in scena Ustica, il Vajont e altra storia d’Italia, quanto le è costato, se le è costato?

Viviamo in una situazione in cui l’autocensura è più potente della censura. Possiamo criticarla, ma la democrazia ha comunque grandi vantaggi per chi fa un mestiere di opinione come il mio. Personalmente, non credo che l’atteggiamento sportivo ‘no-limits’ sia quello giusto; non è che io prendo l’argomento più figo che c’è in giro, quello più controverso, e lo porto in scena. Ci pensano già i social, pieni come sono di esibizionisti, di acrobati delle parole scritte o dette. Credo che un mestiere come il mio costringa ad affrontare il peso delle parole che si scelgono e si usano, e credo che subentri – forse in modo del tutto istintivo, forse per via dell’età – una certa dose di pigrizia e prudenza che è il caso di tenere a bada, e quel po’ d’esperienza che ti permette di non approcciare i temi in maniera fanatica.

Parlo dal punto di vista di chi come me punta più sul lavoro autoriale che non su quello dell’attore: ci muoviamo dentro un lungo solco, ogni tanto ci azzecchiamo, trovando qualcosa di più forte di altre volte, ma non sempre la ciambella ci riesce col buco. La cosa che dà più fastidio, in questo senso, è misurare le proprie intenzioni con i risultati, e scoprire che c’è un’enorme differenza. L’analisi delle intenzioni e dei risultati ti dà la misura di quanto tu ti sia avvicinato a quanto avevi in programma di fare, o quanto tu ne sia rimasto lontano. E si sbaglia infinite volte, e magari vien voglia di farlo ancora.