A colloquio con un maestro dell’American songbook e Grammy Award, lunedì 10 ottobre al Teatro del Gatto, ospite del Jazz Cat Club
Artista carismatico e pianista di gran classe, vincitore di un Grammy in coppia con Tony Bennett, il pianista Bill Charlap è conosciuto per i suoi delicati e sottili arrangiamenti di standard del jazz. È considerato un maestro dell’American Songbook. Nato a New York nel 1964, ha iniziato a suonare il pianoforte all’età di tre anni. Figlio d’arte – suo padre era il compositore di Broadway Moose Charlap, sua madre la cantante Sandy Stewart – ha collaborato con grandissimi musicisti, da Phil Woods a Gerry Mulligan, da Wynton Marsalis, a Benny Carter, Barbara Streisand, Peter Washington, Kenny Washington. Domani, lunedì 10 ottobre alle 20.30 sarà ad Ascona, al Teatro del Gatto, ospite del Jazz Cat Club (biglietti alla cassa, tel. 078 733 66 12).
Bill: crescere con un papà compositore e una mamma cantante deve essere stato divertente…
Una vera fortuna! Osservare mio padre comporre al pianoforte e mia mamma cantare è stato un bel modo di crescere. Ero sempre circondato dalla musica. Poi c’erano tutti gli amici musicisti dei miei, gente come Charles Strouse, Alan e Marilyn Bergman, che da piccolo non realizzavo nemmeno chi fossero…
Non c’è da stupirsi che ti sia messo a suonare il pianoforte…
Non ho fatto altro che imitare mio papà. Non saprei nemmeno dire quando ho iniziato a suonare il pianoforte. L’ho sempre fatto, non ricordo un solo momento della mia vita in cui non ho suonato il piano.
Registrare due album con la propria mamma: un’esperienza particolare, o no?
Non per noi. È stata una cosa naturale. Mia mamma era una grande professionista. A vent’anni cantava già in tv e con grandi musicisti e orchestre, è stata candidata ai Grammy, ha interpretato la prima hit di John Kander e Fred Ebb, gli autori di ‘Chicago’ e ‘Cabaret’ e tante canzoni di Liza Minnelli. Lavorando con lei non c’è mai stato un momento d’imbarazzo o disagio. Mia mamma è da sempre una delle cantanti che ascolto. Questo sì, è speciale, perché quella della mamma è la prima voce che un essere umano sente, è il primo soffio di vita che ti connette all’universo.
Non bastassero un papà e una mamma musicisti, hai pure sposato una pianista e compositrice. Suonate spesso assieme?
Con Renée (Rosnes, ndr) ho registrato ‘Double Portrait’ una quindicina di anni fa. Poi abbiamo lavorato entrambi con Tony Bennett, all’album di canzoni di Jerome Kern. Lì duetto con Tony, ma suono anche col mio trio e in quattro canzoni c’è anche mia moglie. Renée, va detto, è una delle migliori pianiste al mondo. Siamo molto legati, ci capiamo e ci rispettiamo nelle nostre differenze.
Passiamo all’American Songbook: cosa ti affascina nella musica di Broadway, negli standard jazz degli anni 40 e 60?
A parte che sono cresciuto con questa musica, siamo di fronte a canzoni con bei testi, grandi melodie, che offrono un solido canovaccio su cui improvvisare. Ma il punto vero è che contengono una marea di emozioni ed esperienze che trascendono il tempo… Kern, Gershwin, Berlin, Porter, Arlen, Rodgers, Ellington, senza contare un sacco di jazzisti. Così tanta gente ci ha lasciato un patrimonio musicale inestimabile. Di fronte a tanta ricchezza, quando mi definiscono un maestro dell’American Songbook mi viene da sorridere. In tutti questi anni non ho fatto altro che imparare. Perché è così: quando t’innamori di qualcosa vuoi sapere tutto, approfondire, vedere le cose da altre prospettive, con gli occhi, coi sensi, con lo spirito.
Hai interesse anche per musiche più contemporanee?
Ascolto veramente di tutto. Sono onnivoro, una cosa che sicuramente ho imparato anche all’High School for the Performing Arts di New York, dove ho incontrato musicisti di ogni orizzonte. I nostri incontri erano una continua celebrazione della musica, senza snobismi di sorta. Del resto, non conosco un solo grande musicista che sia snob…
La lista dei grandi con cui ha collaborato è impressionante. Quale è stata l’esperienza artistica decisiva?
Da tutti ho imparato un sacco di cose, dai maestri del jazz, dagli artisti della nostra generazione, da mia moglie, dai musicisti del mio trio, Peter e Kenny Washington, con cui ho suonato per 25 anni. Ci siamo influenzati a vicenda, abbiamo imparato uno dall’altro. La loro musica vive in me, e viceversa. È un dono che arricchisce la nostra umanità, perché, davvero, da soli non siamo niente…
Che importanza dai al successo, per esempio al fatto di aver vinto un Grammy al fianco di Tony Bennett?
Un Grammy è un onore e serve anche alla carriera nella misura in cui ti apre nuove opportunità. Detto ciò, Mozart e Bach non hanno mai vinto un Grammy. E non scordiamo che i Grammy sono un premio assegnato dall’industria musicale, che ha l’occhio rivolto al business, cosicché capita solo di tanto in tanto che il premio ricompensi anche l’arte, il valore musicale... Vincere è comunque sempre un piacere.
Il trio sembra la formazione perfetta per la tua musica. Ad Ascona ci saranno Carl Allen alla batteria e David Wong al basso. Ce li puoi introdurre rapidamente?
Due musicisti che amo molto. Carl è un batterista speciale, con uno swing incomparabile, dinamico, capace di far risuonare nella sua musica un feeling e un sound totalmente connessi a quello che è stato il jazz. Ci sentii Art Blakey, Alvin Jones e tanti altri. È poi anche un grande improvvisatore. Quanto a David, fa bellissime linee di basso, adoro il suono così rotondo e caldo ed è uno che ascolta. Suonare assieme è una cosa che prendiamo molto sul serio perché è nostro dovere onorare la musica. Ma è soprattutto un grande divertimento.
Che brani avete in scaletta per stasera?
Niente di definito, vediamo quando saliamo sul palco, dipende dalla situazione e dal pubblico.