Giovedì 4 agosto il Vallemaggia Magic Blues riabbraccia il bluesman, che presto pubblicherà un album dedicato a chi nel 1983 a Montreux gli cambiò la vita
Mettila come vuoi, quando in Svizzera dici ‘blues’ dici Philipp Fankhauser, 58 anni, nato a Thun ma cresciuto in Ticino a pane e blues, naturalmente, ma anche a pane e cantautori. Forse la duttilità, le aperture melodiche dei suoi lavori – l’ultimo in ordine di tempo è ‘Let It Flow’, anno 2019 – vengono da lì, dagli anni di Gordola, quando 11enne comprava i dischi in piazza a Locarno. "‘Banana Republic’ è un disco pazzesco", ci disse tre anni fa presentando il suo, di disco, con dentro ‘Milano’ di Lucio Dalla, artista amato tanto quanto i grandi del blues, prima di volare dall’altra parte dell’oceano a conoscerne alcuni e a vivere quella musica, da riportarsi in patria per essere riproposta con la massima, inscalfibile credibilità (il granitico Swiss Music Award del 2015 parla da sé).
Tre anni dopo ‘Let It Flow’, il Vallemaggia Magic Blues riabbraccia l’half-ticinese Fankhauser, che da Maggia, sede dell’indimenticato concerto del 2019, si sposta a Gordevio, dov’è atteso il prossimo 4 agosto alle 21, sulla scia di un remix – ‘Watching From The Safe Side’, album del 2006 prodotto da Dennis Walker (musicista e produttore scomparso un anno fa, già al fianco di Robert Cray e B.B. King) – e sulla scia di un nuovo album in lavorazione. Di cui, qui sotto, Philipp ci dirà, senza lesinare informazioni.
Philipp Fankhauser, l’ultima volta su queste pagine era il 2019. Tante cose sono accadute: di quale salute gode oggi la tua musica?
È vero, tante cose sono successe, e nel nostro caso possiamo ritenerci fortunati. Nel marzo del 2020 ci sentivamo come tutti gli altri, scioccati, ma in mezzo a tutto quell’aprire e chiudere cui siamo stati sottoposti, snervante, ci sono stati spiragli più o meno lunghi durante i quali poter suonare. Di certo le continue pause, per noi che siamo abituati a suonare sempre, non hanno aiutato. Però tra il 2020 e il 2021 siamo riusciti a mettere in fila dai cinquanta ai sessanta concerti, alcuni con più repliche, per andare incontro alle capienze ridotte e accontentare quanta più gente possibile. Economicamente non sarà stato convenientissimo, ma si trattava di salvare il nostro spirito, e si trattava della sopravvivenza di questo lavoro.
Ci eravamo lasciati a ‘Let It Flow’, album cosmopolita per concezione e realizzazione, in cui il blues incontrava anche Hanery Amman e Dalla. Il presente ha un titolo nuovo?
Titoli non posso farne, ma stiamo lavorando al nuovo disco, in uscita il 16 di dicembre. Il primo singolo uscirà il 26 di agosto. Per questo nuovo album abbiamo appositamente registrato tredici canzoni del mio idolo e amico Johhny Copeland, tredici brani che lui scrisse all’inizio degli anni ’60, quand’era ancora giovanissimo. In quel particolare momento storico, fine anni ’50 - inizio ’60, il blues subì lo scossone portato dall’arrivo dalla musica soul, e Johhny, per sopravviere, si adattò producendo un soul-blues che ai tempi era assai commerciale, un po’ ‘alla Otis Redding’, ma assai ben scritto. Tutte composizioni molto brevi, perché in quegli anni le radio non passavano singoli che andassero oltre i due minuti di lunghezza, ma di grande qualità. Sono brani influenzati da quel soul ma anche, naturalmente, dal rock and roll.
Un tributo, dunque. Come mai proprio Copeland?
Perché Johnny è stato un faro nella mia carriera. Nel luglio del 1983 lo vidi a Montreux, in un’edizione che vedeva anche John Lee Hooker, Luther Allison. Avevo 19 anni e posso dire che Johnny cambiò la mia vita. Da quel concerto mi si aprì un mondo: fino a quel momento, per me il blues era tre accordi, le classiche twelve bars, tipicamente Chicago. Johnny, al contrario, era un concentrato di melodie molto varie, e insieme aveva quel taglio soul che lo rendeva differente dagli altri. Il prossimo anno, quarant’anni dopo quel concerto, per me sarà una sorta di giubileo, e il nuovo disco s’inserisce proprio in questo contesto.
Montreux è Montreux, ma anche il Vallemaggia Magic Blues ha la sua storia…
L’invito di quest’anno mi fa felice. Ci hanno messo un discreto tempo prima d’invitarmi, ma mi fa estremamente piacere. La prima volta, nel 2019, fu un vero successo, c’era tanta gente che si ricordava di me, visto che ho frequentato Tegna, Verscio, e la Vallemaggia la conosco bene. In Ticino ricordo con piacere il concerto di Bellinzona, al Blues Festival del 2006, e anche JazzAscona, nel 2018, un invito che ho apprezzato tantissimo. Non ho mai suonato a Lugano, all’Estival.
‘Nemo propheta in patria’, secondo i latini funziona così...
Sì, ma non è un problema. Credo di avere davanti a me almeno altri venti, venticinque anni per fare ancora questa musica, sempre che io rimanga sano (ride, ndr). In generale, preferisco il ‘meglio tardi che mai’…
Il 2021 non è stato un grande anno per te, in ambiti di amici persi. Sulle tue pagine social ricordi Margie Evans, alla quale ti hanno legato collaborazioni e una profonda amicizia…
È successo nel maggio dello scorso anno. Sì, è stato un momento molto doloroso. Nel maggio di quest’anno ci ha lasciati anche Dennis Walker, e la cosa mi ha talmente stravolto che nemmeno ho trovato la forza di scrivere una riga. Gli dedicherò un tributo quando me lo sentirò.
Chiudiamo con Gordevio: due parole sullo show?
Nel 2019, a Maggia, suonavamo con tre fiati al seguito. Questa volta veniamo solamente, e lo dico tra virgolette, in quintetto, che è la mia forma preferita per questioni di pura flessibilità. I fiati hanno parti precise da eseguire, mentre suonando in cinque, pur esistendo un piano preciso, pur sapendo perfettamente quel che suoneremo, io posso adattarmi più facilmente al pubblico, vedere le loro facce e capire dalla loro relazione cosa posso suonare, cambiando le canzoni come più mi piace. Quando siamo sul palco non suoniamo per noi, ma per il pubblico. Mettiamola così: su di un Alfa Romeo sei più flessibile che alla guida di un grande camion…