In regime di pandemia il quarto e ultimo concerto all’Auditorio Stelio Molo dell’Orchestra della Svizzera italiana
È già finita la serie dei quattro concerti “Play&Conduct”, quanto resta della “stagione dell’Osi nel leggendario Auditorio Stelio Molo”. Leggo le parole tra virgolette sul bel programma di sala in fondo al quale c’è l’elenco dei musicisti dell’Orchestra, che sono 39, l’organico di una grossa orchestra da camera più che di una piccola orchestra sinfonica, per la quale l’Auditorio è fatto su misura. Sul palco, quando l’Orchestra impiega rinforzi, ci stanno agevolmente una settantina di strumentisti, in sala poco più di 400 posti, che, quando i programmi non contengono opere attrattive per il grande pubblico, sono più che sufficienti.
Protagonista dell’ultimo concerto, sempre ancora in regime di pandemia, il violinista Ilya Gringolts che, nato quarant’anni fa a Leningrado, andò a scuola quando la bella città sul delta della Neva era ridiventata San Pietroburgo. La sua biografia è simile a quella di molti talenti musicali del nostro tempo: “Sembra uno stereotipo, ma in Russia un bambino ebreo deve suonare il violino, così non ho fatto domande all’idea dei miei genitori, ho accolto la proposta di suonare con gioia”. La sua formazione precoce, iniziata su canali privilegiati a San Pietroburgo, è continuata alla Juilliard School di New York e gli ha permesso di debuttare sulla scena come solista a undici anni con l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo diretta da Jurij Temirkanov. Oggi la Svizzera può quasi vantarsi d’averlo adottato: vi si esibisce sovente in concerti cameristici e sinfonici, fa parte degli Swiss Soloists che da più di vent’anni danno i prestigiosi Swiss Chamber Concerts.
Giovedì, nel doppio ruolo di solista e direttore, aveva in programma le intriganti “Varianti” per violino solo, archi e legni (1957) di Luigi Nono, ma verosimilmente per l’impossibilità di disporre dei 32 archi richiesti dalla partitura, ha dovuto ripiegare su una meno intrigante Romanza per violino e orchestra (1875) di Antonín Dvorák. Ha potuto invece confermare il Concerto per violino n. 6 op. 10 (1743) di Jean-Marie Leclair e la Sinfonia n. 4 (1816) di Franz Schubert.
È stato soprattutto nel brano di Leclair che ho ritrovato alcune peculiarità del violinista ammirate ogni volta che l’ascoltai dal vivo: bellezza di suono, aristocratica sobrietà nei passaggi virtuosistici. Grazie all’impegno dell’orchestra, pur imbottita di sostituti e aggiunti, la sua direzione in Leclair e in Dvorák è andata abbastanza bene.
Non così nella Sinfonia Schubert, che ha voluto dirigere col violino in mano e suonando anche assieme ai primi violini. Che può un direttore col volto coperto dalla mascherina, che con la mano destra agita l’arco invece della bacchetta e con la sinistra regge lo strumento? Nemmeno può chiedere le più semplici sfumature dinamiche di forte e piano.
Il pubblico colto, raffinato e mascherato, che riempiva due terzi della sala, ha mostrato di capire il dramma dei musicisti in pandemia, ha applaudito con grande calore e richiamato più volte Ilya Gringolts.