Alla ricerca dell’Oscar, imbolsito quel che serve, è il megapapà di Venus e Serena in un film in cui tutti (o quasi) sanno tenere in mano una racchetta
Ha appena saputo che Virginia Ruzici, tennista rumena tra le prime dieci del ranking, ha guadagnato 40mila dollari in 4 giorni e non se ne capacita: “Ho sbagliato mestiere, oppure io e mia moglie dobbiamo fare altre due figlie”. L’afroamericano Richard Williams (Will Smith) gira i bianchissimi circoli tennistici californiani con brochure e vhs amatoriali nelle quali sono descritte le abilità delle due figliolette, che un giorno, ne è certo, vinceranno Wimbledon e faranno i soldi. Sono i primi Novanta e di giorno, a bordo del suo Transporter, la guardia di sicurezza e insegnante di tennis carica e scarica racchette, palline e le due ragazzine Venus (Saniyya Sydney) e Serena (Demi Singleton), da casa ai campi da tennis pubblici di Compton, sud di Los Angeles, non certo il posto migliore del mondo. Ancor meno per una famiglia afroamericana, con la seconda moglie Oracene ‘Brandy’ Price (la brava Aunjanue Ellis, già dolce metà di Ray Charles in ‘Ray’, 2004) che porta in dote altre tre figlie avute dal precedente marito.
Nei giorni di Rodney King in tv, pestato a morte dalla polizia di Los Angeles, la ricerca del successo e del rispetto di papà Williams trovano nel coach Paul Cohen (Tony Goldwyn), folgorato dalle doti di Venus, il primo professionista disposto a sposare la causa sportiva, poi scaricato per Rick Macci (Jon Bernthal), l’uomo dietro Jennifer Capriati (teenager già ai piani alti del circuito professionistico) che si offre – alle condizioni di Williams, che controlla ogni passo delle proprie figlie – di far fruttare il talento di Venus. Il successo sarebbe dietro l’angolo, non fosse che papà, prima dei contratti milionari, pretende dalle ragazze istruzione, umiltà e divertimento, finanche andare a Disneyworld invece che giocare i campionati juniores, meglio che finire in una foto segnaletica a 17 anni come Capriati, vittima dell’ingranaggio. Sarà la storia, non il film, a dire che King Richard, sempre a modo suo, aveva ragione: con Venus e Serena il tennis tornerà ‘proud & black’ (James Brown) dopo Arthur Ashe, tennista-benefattore, vittima illustre dell’Aids poco prima dell’avvento delle Williams, e dopo aver combattuto il pregiudizio e l’apartheid.
Come spesso accade con le traduzioni, se sulla locandina non vi fosse una racchetta, ‘Una famiglia vincente’ parrebbe un sequel di ‘Ti presento i miei’. E quindi, perché non lasciare ‘King Richard’, titolo originale del film di Reinaldo Marcus Green, specchio fedele dell’imponenza ‘larger than life’ (esagerata) di Richard Williams, papà di due bimbe plasmate nel tennis e consegnate alla storia di questo sport: Venus – che il babbo chiama ‘Junior’ – prima afroamericana dell’era Open in vetta al ranking femminile, e Serena – detta ‘Meka’ – che in carriera ha vinto più Slam di Djokovic. Serena icona venuta dai sobborghi grazie alla quale, malgrado la diversa opinione del serbo, le donne oggi giocano a tennis per montepremi pari a quelli degli uomini.
Non se ne conoscesse l’innata grezzezza, quella di Will Smith nei panni (tute, quasi sempre) di Richard Williams parrebbe una macchietta, che macchietta non è: imbruttito, imbolsito quanto basta, straripante come l’originale, l’attore fresco di Golden Globe è dato papabile a quell’Oscar sfumato per ‘La ricerca della felicità’ (2006) e prima ancora per ‘Ali’ (2001), nel fu Cassius Clay. Di quel film, presentando ‘King Richard’, l’attore ricorda: “Feci l’errore di sedermi dietro di lui per l’anteprima e a metà del film lo sentii chiedere alla moglie che razza di follia stessero guardando”. Diverso con le sorelle Williams, produttrici esecutive di ‘King Richard’, che hanno benedetto in corso d’opera: “Sono state le due ore peggiori della mia vita, ma alla fine erano in lacrime e lo hanno amato”, dice Smith al Graham Norton Show.
Venus e Serena produttrici rimandano a ‘Bohemian Rhapsody’, con Brian May e Roger Taylor a dire di sì o di no al regista, e a ‘Rocket Man’ con Sir Elton a scegliersi l’alter ego. Motivo per il quale, nel caso di ‘King Richard’ c’è chi parla di agiografia, di un padre-padrone troppo padre e poco padrone, o di un padre-padrone di cui non si dice tutto, una terza ex moglie, coetanea della primogenita tennista, che poco apporterebbe a un film che si ferma al 1994, con Venus 14enne al debutto nel circuito contro Arantxa Sánchez Vicario, ricostruzione che sa di Live Aid di Mercury, ma non altrettanto epica.
In una voglia di riscatto che fa bene al cuore, alcuni sprazzi di riuscita satira antirazzista, e coi Novanta accuratamente ricostruiti – t-shirt, racchette, tubi di palline, analogico vario e l’ipercalorico Gatorade nell’antica bottiglia di vetro col tappo di latta – un plauso alla credibilità: si possono dire ‘film sul tennis’ solo quando gli attori si muovono come tennisti (‘Wimbledon’, 2004, il peggiore), e la brava Saniyya Sydney tutta sorrisi come Venus, mancina nella realtà, ha imparato a giocare con la destra. Per essere Serena ha studiato pure Demi Singleton. Tutti, in questo film, hanno dovuto imparare a giocare a tennis, tranne forse Will Smith al quale, in vista dell’Oscar, un paio di lezioni non sarebbero guastate.
Cosa funziona: Smith, chi altri, e le scene di famiglia al completo, che danno un senso al titolo italiano.
Cosa non funziona: qualche stereotipo di troppo, ma d’altra parte è Hollywood, mica Espn.
Perché vedere questo film: per dimenticare le crisi isteriche di Serena adulta sui campi da tennis odierni.