I celeberrimi Concerti brandeburghesi mostrano che la popolarità non debba per forza passare dalla facile emotività
La musica di Bach non è certo un modello di arte consolatoria e sicuramente non si presta a livelli di lettura in chiave emotiva, vale a dire a quello stadio su cui si usa far leva quando si intende mirare al responso sicuro da parte degli ascoltatori. In verità il fascino che emana dalle pagine bachiane dipende da un linguaggio regolato da evidenti e serrati rapporti di necessità in tutto il suo procedere. La constatazione è importante nella misura in cui conferma la possibilità di far leva sull’interesse del pubblico (non dei singoli, ma proprio della massa) non al più scontato grado dell’emotività, bensì ai livelli di coscienza più insospettati. Come è vero che l’emozione è una leva fondamentale nel rapporto di comunicazione, così lo può essere la razionalità. Ritengo infatti che l’interesse del pubblico per Bach sia oggettivamente fondato e tutt’altro che ambiguo, poggiante cioè sul bisogno reale di confronto con una forma artistica implicante nell’esperienza estetica l’equiparazione a sapienza scientifica, in cui la capacità creativa sia manifesta nella libertà affermata nel momento stesso della sottomissione alla complessità di norme assolute. Il fascino proviene proprio da qui, dall’accertata componente soggettiva che Bach sempre preserva nel severo, intricato e geometrico quadro di svolgimento del suo discorso. Discorso che, per quanto ce ne distolga l’obiettivo di astrattezza, implica a volte livelli d’approccio perfino mondani com’è il caso di questi concerti, notoriamente fondati sulla pratica italiana a quel tempo generalizzata a tutta l’Europa per il favore che indistintamente godeva nelle varie corti.
Le musiche concertanti di Bach si situano infatti fra il 1717 e il 1723, negli anni della sua permanenza alla corte di Cöthen dov’era stato chiamato a svolgere il preciso compito di ‘Kapellmeister’, addetto alla musica strumentale. Quando si pone mente alla stretta relazione intercorrente tra le fasi creative di Bach e i compiti assegnatigli dall’impiego rivestito nei vari luoghi in cui fu attivo, non manca di sorprendere la disciplina con cui egli si attenne alla sua funzione, tale da farlo apparentemente sembrare un supino funzionario dell’arte dei suoni. In realtà, proprio negli stessi termini in cui la sua musica realizza una sintesi senza scosse tra passato e futuro dell’esperienza musicale occidentale, la sua personalità artistica, pur rimanendo adagiata alle condizioni imposte dalla gerarchia dei ruoli sociali, senza determinare rivoluzioni di sorta ha saputo trovare spazio sufficiente a svolgere con libertà anticipatrice di rilevanti sviluppi progetti di audacia senza pari. Nulla sappiamo del modo in cui furono accolti i sei Concerti brandeburghesi, ma è lecito supporre che il loro autentico valore non fu compreso. Nell’inventario delle musiche possedute dal dedicatario Margravio di Brandeburgo, redatto dopo la sua morte nel 1734, i concerti bachiani non sono citati. Menzionati espressamente vi figurano i concerti di Vivaldi e di altri autori italiani, che erano evidentemente i più apprezzati. Quelli di Bach dovevano trovarsi dunque fra i «77 concerti di diversi autori», stimati nel complesso 12 talleri, oppure tra i «100 concerti» stimati 16 talleri (pochi soldi per ogni concerto).
I Brandeburghesi, pur essendo sorti sul terreno del concerto grosso, vanno infatti ben al di là dell’esperienza concertante. È indubbio che Bach abbia condotto l’operazione con piena consapevolezza delle basi nuove che stava gettando. La stessa fisionomia esteriore del ciclo lo denota: ognuno dei sei concerti costituisce una dimensione sonora a sé, raggiungendo un’individualità sconosciuta fino allora a una composizione strumentale. Un’analisi dettagliata di ogni concerto richiederebbe un lungo discorso, capace di dimostrare la complessità dei principi compositivi messi in opera per superare lo scontato metodo concertante. Esteriormente l’esempio più paradigmatico è costituito dal primo movimento del quinto concerto, esteso sulla durata di una decina di minuti, vale a dire la durata media di un intero concerto italiano nei suoi tre movimenti. È la sostanza polifonica del linguaggio bachiano, combinata con la dinamica concertante a fornire maggiore capacità propulsiva e a rendere possibile l’allargamento delle forme a più grandi dimensioni; mentre l’individualità tematica appresa dai modelli italiani è sfruttata con il massimo rigore. A dimostrare questa conquista sta il terzo concerto, dove ogni dualismo tematico è deliberatamente evitato in favore della concentrazione su di una cellula generatrice distribuita in movimento circolare a un vasto tessuto di dieci voci. L’elaborazione a tal punto ricca e serrata contiene significativi annunci dell’esperienza della sinfonia e del modo in cui sarebbe stato attuato il passaggio alla predominanza della disciplina strumentale sugli altri generi.