Delicata black comedy su di un piccolo aspirante führer che poi così führer non è. Sei nomination per il film di Taika Waititi. E i motivi ci sono tutti.

In pieno conflitto bellico, Johannes Betzler (Roman Griffin Davis) ha dieci anni, un padre disperso e una sorella morta per malattia. Coltiva un certo scoppiettante sentimento nazista insieme all’amico immaginario Adolf Hitler (Taika Waititi), che gli appare nei momenti topici della sua giovane vita come Humphrey Bogart appare al Sam di ‘Provaci ancora Sam’. Il piccolo aspirante führer, insieme all’amico non immaginario Yorki (Archie Yates), frequenta con orgoglio i corsi della Gioventù hitleriana diretti dal Capitano Klenzendorf (Sam Rockwell) in un campus dai colori disneyani in cui s’insegna alle SS in fasce come eliminare gli ebrei “e alle donne come rimanere incinte”. Il piccolo Betzler non ha esattamente la faccia da nazistello, e nemmeno l’istinto: quando gli si chiede di uccidere un coniglio, gli riesce al massimo di provare a mettere in salvo la bestiola. È per questo che da quel momento di umiliazione pubblica in avanti lo chiamano Jojo Rabbit. A scherno si aggiunge ulteriore scherno quando, spinto dall’Adolfo a tirar fuori il führer che c’è in lui, lancia maldestramente una granata che gli esplode tra il piede e il volto, mandandolo in depressione per l’imbarazzo di una faccia che gli pare un puzzle e per la noia data dalla degenza.
Mamma Rosie (Scarlett Johansson), che sui nazisti non la pensa esattamente come il figlioletto, pare poco preoccupata dal suo piccolo ‘Shitler’ (soprannome che è un affettuoso tutt’uno di escremento e dittatore), anche perché ha un segreto cui badare. Che un bel giorno, Johannes, scopre: in soffitta è nascosta Elsa Korr (Thomasin McKenzie), adolescente ebrea compagna di classe della defunta sorella. Le vicendevoli minacce dei due ragazzi di aprir bocca con la Gestapo (Jojo) e d’infilzarlo con un coltello (Elsa) finiscono in un nulla di fatto; così «la piccola Jessie Owens», come la chiama il führer, può spiegare al ragazzino quale ‘mostruosità’ il mondo senta il bisogno di cancellare per sempre dalla storia; e Jojo può valutare l’eventualità che l’amico Adolfo non sia un modello di vita, bensì un perfetto imbecille.
Liberamente traendo da ‘Come semi d’autunno’, romanzo di Christine Leunens, e riportando sul grande schermo l’idea dell’infanzia al cospetto dell’Olocausto (‘Il bambino con il pigiama a righe’, pur con altro stile narrativo), ‘Jojo Rabbit’ è una delicata black comedy senza eccessi affidata a singoli, illuminanti momenti di sarcasmo e di tenerezza. In un contesto in cui fa estetico capolino Wes Anderson (tonalità e tempi ‘Moonlight Kingdom’ giungono sin dalla prima inquadratura), il neozelandese Taika Waititi è regista e Hitler allo stesso tempo, nei panni di un führer che per petulanza e dinoccolatezza sta tra il dittatore di Chaplin, il varietà del Dopoguerra e (coniglio per coniglio) Roger Rabbit.
‘Jojo Rabbit’ è abile celebrazione della bassezza umana condotta con la migliore e più rispettosa ironia a colpi di gag (i ripetuti, irresistibili ‘Heil Hitler!’ nel momento più drammatico), battute esilaranti (“Gli ci sono volute settimane per riprendersi dal fatto che il nonno non era biondo”, dice mamma Rosie del figlio a Elsa), colpi bassi ai nazisti dell’Illinois (il fedele collaboratore del Capitano Kletzendorf ha movenze effemminate) e molte carezze. A partire da Scarlett Johansson, doppia candidatura all’Oscar 2020, qui come attrice non protagonista, che non oscura né gli strepitosi Roman ‘Jojo’ Griffin Davis e Thomasin ‘Elsa’ McKenzie, tanto meno un Sam Rockwell non distante, per tragitto tra deriva e riscatto, dall’agente Dixon di ‘Tre manifesti a Hebbing, Missouri’.
Waititi, candidato a ulteriori cinque Oscar (film, sceneggiatura non originale, scenografia, montaggio, costumi), racconta il pregiudizio travestito da poeta. Lo fa lungo poco più di un’ora e mezza di film aprendo in modo geniale coi Beatles che cantano ‘Komm, gib mir deine hand’, versione germanica di ‘I wanna hold your hand’ (è brit-germanico anche il finale). Cento minuti, il giusto per non volerne di più, il giusto per ripartire dall’inizio, anche subito. Anche nelle scuole.