laR+ L'intervista

Una vita dedicata ai bambini: Gian Paolo Ramelli va in pensione

Primario all'Istituto pediatrico della Svizzera italiana, capì di voler essere utile cantando ai giovani con handicap. ‘La medicina di oggi è una corsa’

Gian Paolo Ramelli, primario all’Istituto pediatrico della Svizzera italiana
(Ti-Press/Alessandro Crinari)
11 maggio 2023
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Per vedere la sfilza di diplomi, occorre alzare lo sguardo perché li ha piazzati in cima agli scaffali. Potrebbe tappezzarci una parete, tanti sono i certificati conseguiti in quarant’anni di studi e formazione. Invece il professor Gian Paolo Ramelli ha appeso una colorata mappa del Camerun su una parete del suo ufficio all’ospedale San Giovanni di Bellinzona, dove ad altezza occhi ci sono bandierine di vari Paesi, peluche, calamite souvenir di città, un modellino di una Mini rossa (lui lo si potrebbe incontrare al volante di una Mini nera d’antan), una giraffa in legno. E quattro fotografie una in fila all’altra che lo ritraggono con un bebè. Non è uno degli innumerevoli bambini di cui si è preso cura in veste di pediatra e neuro pediatra: è Lio, il suo primo nipote al quale non vede l’ora di poter dedicare più momenti e che è probabilmente l’unico essere umano al mondo capace di far stare fermo un iperattivo come lui.

Nato nel 1958 a Basilea, primario di Pediatria di base e specialistica all’Istituto pediatrico della Svizzera italiana, il dottor Ramelli – al quale sarà dedicato un simposio alla carriera giovedì 25 maggio al Teatro Sociale – a fine mese andrà in pensione. Lascerà tutti gli incarichi ospedalieri, rimanendo come consulente con un impegno di uno o due giorni la settimana. Studi a Berna, esperienze formative, oltre che nella capitale, a Lucerna e Zurigo, ricerca a Londra, docenza all’Università di Basilea, definisce il suo un «percorso a zig zag» che, proprio per questo essere tortuoso, l’ha fatto «maturare. I molti cambiamenti hanno comportato il dover ricominciare sempre da capo». Ha imparato a interagire con altre culture, «ciò che permette di allargare gli orizzonti e acquisire visioni diverse. Una strada di questo genere si è rivelata una scuola di vita». Come quando, già primario in Ticino, si è ritrovato in Inghilterra a essere «‘l’ultimo’ dei ricercatori». Dimostrare ogni volta il proprio valore, gli ha forgiato il carattere – racconta – e insegnato a gestire, in ogni suo ruolo, le situazioni più complicate. «Ho capito che prima di tutto le persone si devono complimentare e gratificare per ciò che fanno e solo in un secondo tempo vanno loro illustrati eventuali correttivi; in forma di suggerimenti o indicazioni, mai di critiche. È fondamentale dar spazio agli altri e valorizzare ciò che ognuno può portare».

Prof. Ramelli con quali sentimenti si sta avvicinando alla pensione?

Con uno spirito un po’ ambivalente. Da una parte – si prende una lunga pausa – mi sento stanco, veramente. Anche fisicamente fatico sempre più a mantenere il ritmo. Intendiamoci: a me piace sempre il mio lavoro, che poi non chiamerei nemmeno tale, perché la mia vita è questa e non ho mai considerato altro che dedicarmi ai bambini. L’aspetto amministrativo ha però assunto un peso notevolmente maggiore e una parte vieppiù grande del tempo del medico è sottratta da compiti slegati dal contatto diretto con il paziente. E questo mi pesa. Le faccio un paio di esempi: penso di essere l’unico a scrivere le cartelle a mano e a non essere riuscito a passare all’informatica; inoltre per noi giovani medici era fondamentale avere un capo clinica o un senior con cui discutere i casi e imparare, mentre ora la tecnologia rende quasi superflue queste figure. Negli ultimi venti, venticinque anni la medicina è cambiata completamente, in particolar modo grazie alle conoscenze. Il rovescio della medaglia è che si è sempre di corsa. In passato le priorità erano il colloquio con il paziente e la visita; oggi la medicina, su cui gioca un ruolo sempre crescente il fattore economico, è ‘invasa’ da un’infinità di accertamenti da eseguire in fretta e il tempo per osservare il malato è ridotto. Per una persona della mia generazione, che ha vissuto una professione di un altro tipo, è più difficile tenere il passo con questa evoluzione. Tutto è veloce e complesso, da questo punto di vista sono contento di smettere.

D’altra parte è vero che si chiude un grande capitolo: quello di un’intera vita trascorsa al fianco di numerose famiglie.

Fare il medico si dice sia un po’ una missione. Ha sempre desiderato diventare un dottore, in particolare un pediatra?

Mi è sempre piaciuto avere a che fare con i bambini. Ma c’è un aneddoto che, forse, è alla base di ciò che sono diventato ed è legato a don Giovanni Maria Colombo. Io sono cresciuto tra i due campanili di Daro (dove lui era parroco) e Artore. Nei primi anni Settanta don Colombo aveva creato la Fondazione Madonna di Re a beneficio di giovani portatori di handicap e insieme ad alcuni compagni si andava chi a suonare la chitarra e chi a cantare con quei ragazzi. Ho nitido il ricordo di come mi avesse colpito il fatto che loro, con poco, fossero davvero felici. Vedere persone assai più sfortunate di noi manifestare tanta gioia, è stato uno degli stimoli ad avermi spinto verso una formazione che mi consentisse di essere utile. Scegliere, più tardi, la neuro pediatria come sotto specialità mi ha permesso di entrare in contatto con un mondo di persone che hanno meno fortuna di noi in termini di salute, ma che possono dare molto.

Quello che ha ricevuto da questo suo mondo di pazienti, cosa le ha portato a livello personale?

Mi ha permesso in particolare di affrontare tutte le situazioni, belle o brutte, con ottimismo e spirito positivo. La più grande lezione che ne ho tratto è di sapere di essere una persona fortunata. Per buona parte dei pazienti che ho seguito, non esistono ancora terapie che permettano una guarigione e dunque si tratta di sostenere una famiglia ad affrontare anche le cose più banali della vita, magari con aspettative più limitate rispetto ad altri. In certe situazioni piccoli passi o progressi assumono significati importanti e sono fonte di gioia, senza pretendere la Luna.

Come nasce il suo impegno in Africa?

Come famiglia abbiamo sempre messo a disposizione tempo nell’aiuto agli altri. Durante i miei studi in medicina, nel 1982 durante l’anno di pratica, ero stato tre mesi dal dottor Giuseppe Maggi in Camerun; poi sono entrato nella sua Fondation Hélvetique. Negli anni sono tornato alcune volte in Africa, sebbene non tanto quanto avrei voluto. Lo spirito di base che mi ha spinto è dedicare le mie conoscenze in progetti legati a chi ha bisogno. Ora che avrò più tempo, mi auguro di riuscire a farlo maggiormente. Quello spirito, a ben vedere è lo stesso che mi ha mosso nel campo dell’autismo. Quando ho cominciato a lavorare c’erano patologie di cui si moriva (a livello cardiaco e oncologico, ma non solo) e che oggi sono curabili. Non è così in neurologia, specialità in cui i progressi riguardano piuttosto presa a carico e qualità di vita dei pazienti. È in quest’ottica che rientra il mio impegno.

Il Ticino vanta medici di eccellenza e una medicina di punta. A suo parere ne siamo consapevoli o rimane l’idea che sia meglio farsi curare oltralpe?

Credo che molto dipenda dalle esperienze personali. Se si ha modo di conoscere altre realtà, si apprezza ciò che si ha ‘in casa’; al contrario, il rischio è di ritenere che manchi sempre qualcosa. Oggi si tende a volere ogni cosa e a volerla subito. È un modo di vivere che non è quello che dovremmo avere, in una società in cui abbiamo tutto. Perché qui abbiamo davvero tutto e siamo fortunati. Nonostante ciò, ci sono persone scontente per le quali non ci sarà mai un ‘tutto’ abbastanza.

Quando si è a contatto con la sofferenza, come si riesce (ma poi, si riesce?) a ‘lasciare in ospedale’ i casi più complessi, mantenendo al contempo l’empatia verso i pazienti? Come fa il prof. Ramelli a ‘preservare’ Gian Paolo?

(Sorride). Non credo sia possibile farlo del tutto ed è uno dei motivi alla base della stanchezza di cui parlavo. Ogni tanto mia moglie mi dice che ho la testa altrove ed è vero. Con l’esperienza si trovano strategie e risorse per gestire al meglio anche la vita privata; però a ogni situazione critica di un proprio paziente, il tarlo rimane dentro la testa. Uno degli aspetti più tragici della mia professione è la comunicazione ai genitori di una diagnosi per il loro bebè, per cui non esiste una terapia e l’esito è la morte. Questi sono i momenti più tristi, perché non si ha nulla che la medicina possa proporre. Situazioni rare che comunque lasciano strascichi.

Lei è un ottimista, diceva. Le rimane, se non proprio un rimpianto, il dispiacere per qualcosa che avrebbe voluto concretizzare? O non è così che guarda alla vita e pensa soprattutto a quanto realizzato?

Non credo di avere qualcosa che mi manca. Forse l’unico aspetto un po’ incompiuto, a causa del poco tempo a disposizione, è come detto quello legato ai progetti nel Terzo Mondo. Non parlerei però di rimpianti. Penso di aver portato il mio contributo su vari piani. Ad esempio quando ho iniziato come primario al San Giovanni nel 1998 succedendo al dottor Fausto Taminelli, ero da solo con due medici assistenti: oggi la pediatria conta ventidue assistenti, una quindicina di senior e diversi specialisti. Un’evoluzione notevole in risposta anche alla necessità di una medicina divenuta più complessa e chiamata a trattare pazienti altrettanto complessi. È stato un cammino lungo, non ancora concluso; però oggi ricorriamo a ospedali d’oltre Gottardo per un numero limitato di bambini e la pediatria ticinese è riconosciuta.

L’anno scorso si è confrontato con la malattia, con una degenza nel suo ospedale. Fuor di vissuto personale, è un’esperienza che le ha permesso di vedere il ruolo del paziente con altri occhi?

È stata un’esperienza che mi ha scosso molto, penso in particolare ai giorni prima che venisse posta una diagnosi. Per finire mi è andata bene, perché quella che ho dovuto affrontare è una malattia guaribile. Può sembrare banale da dire, ma ho davvero capito quanto la salute sia il bene più importante e che tutto il resto, per quanto complicato possa essere, è risolvibile. Mi rendo conto che avrei voluto rallentare il ritmo al rientro al lavoro dopo il periodo di forzato riposo, durante il quale ho apprezzato le giornate con altri interessi, ma di non esserci riuscito e di essere finito di nuovo fagocitato. Intatto è però rimasto l’approccio nel dirmi che di fronte a qualsiasi problema, una soluzione c’è. Inoltre ho avuto la conferma sulla mia pelle di quanta disponibilità e impegno ci mettano gli infermieri e della bontà e competenza del loro operato. Quando ero degente e isolato in camera li ho fatti diventare matti – sorride – e ho apprezzato la maniera professionale con cui sono stato curato.

Com’è riuscito a conciliare un lavoro che assorbe e richiede così tanto, con la famiglia? Quanto è stato importante il ruolo di sua moglie Eliana?

Mi reputo una persona estremamente fortunata anche in questo. Ma prima mi permetta di rendere merito alle aiuto-medico che mi hanno supportato (e forse pure un po’ sopportato) per venticinque anni: Elena e Rosanna. Donne e professioniste eccezionali, grazie alle quali lavoro ‘a occhi chiusi’ e per cui nutro una profonda riconoscenza. Se ho potuto realizzare tutto quanto, è anche merito loro, oltre che di tutto il team di collaboratori che mi ha affiancato e accompagnato negli anni.

Tornando alla famiglia. Avere incontrato una persona come Eliana, è stata una coincidenza positiva. Abbiamo due caratteri completamente diversi – ride –. Complementari, penso. Fin dall’inizio questo ci ha permesso di costruire una famiglia e al contempo il mio lavoro di medico. Non credo che ai miei figli (Vera, Noe, Zeno e Saba, ndr) sia mancata la figura paterna, è però indubbio che a volte avrei potuto essere un po’ più presente. Sebbene ritenga che sia la qualità del tempo trascorso con i figli a fare la differenza, piuttosto che la quantità.