A colloquio con la scrittrice Valentina Mira, ospite di un incontro a Bellinzona dove si è discusso di violenza di genere e del concetto di vittima
Valentina è stata stuprata da un amico durante una festa, era estate. Non denuncia "quell’amico", ma a distanza di dieci anni scrive un libro in forma di lettera indirizzata al fratello. È il 2019 e Valentina Mira inizia a lavorare a ‘X’ (Fandango, 2021), cronaca di una violenza sessuale, in cui racconta con schiettezza gli strascichi dello stupro, un reato che ancora oggi è tabù.
"Il libro è nato così, come un vomito di parole che non vedeva l’ora di uscire", ha commentato in un’intervista l’autrice e giornalista romana che è stata ospite di un incontro svoltosi venerdì 2 dicembre alla Biblioteca cantonale di Bellinzona – ‘X. Il tabù e lo stigma per le vittime, e molto altro ancora’ –, insieme alla psicologa e psicoterapeuta, nonché specialista in psicotraumatologia Angela Andolfo Filippini. L’appuntamento si inseriva nei sedici giorni di Campagna mondiale di attivismo contro la violenza di genere ed è stato organizzato in collaborazione con la Divisione della giustizia del Dipartimento delle istituzioni e il Centro di documentazione sociale (Cds) della Biblioteca. La questione della violenza di genere, sebbene oggi se ne parli un po’ più apertamente, resta un tema sensibile e fortemente attuale come testimonia la cronaca, anche nera, ma ancora troppo spesso la narrazione che se ne fa colpevolizza la vittima, ribaltando i ruoli. Contesto che rende molto difficoltoso per le vittime denunciare. A livello nazionale, qualcosa inizia finalmente a muoversi, almeno sul piano penale: è infatti di ieri la decisione del Nazionale di optare per una ridefinizione del reato di stupro sulla base del consenso.
L’autrice e giornalista romana Valentina Mira nel suo romanzo di esordio racconta lo stupro subito una dozzina di anni fa
Torniamo a ‘X’, romanzo d’esordio. Abbiamo colto l’occasione bellinzonese per intervistare Mira, che è laureata in giurisprudenza, anche se dice di non aver mai avuto interesse per la pratica forense, perché il suo desiderio è «fare la scrittrice da quando ne ho memoria e in effetti oggi è quello che faccio». Tuttavia in Italia è difficile vivere di questo mestiere senza fondi destinati agli artisti «per cui ho bisogno di fare più lavori. Al momento mi occupo, oltre che dei miei libri, di ghostwriting, giornalismo (per il Fatto quotidiano), sceneggiatura e quando serve cameriera».
Quando ha capito che era pronta per questo passo, cioè la stesura della sua storia in forma di romanzo e poi la pubblicazione?
È sempre misterioso capire quando nasce un libro e sono convinta che non sia quando si mette la prima parola su carta. Lo stupro era un discorso che purtroppo usciva fuori naturalmente nelle cose che scrivevo (ho tentato di pubblicare altri due libri, tra cui un saggio, ovviamente goffo e immaturo vista l’età, prima di ‘X’). A un certo punto sono successe nella mia vita le cose che racconto nell’ultima parte del libro, e là c’è stata la scelta consapevole di scriverne per davvero. Diciamo che ero satura. Diciamo anche che detestavo il modo in cui si parlava di stupro nel discorso pubblico.
Consegnare la sua storia a un pubblico potenzialmente molto ampio è stato molto coraggioso. Un coraggio che la maggior parte delle donne che subisce una violenza non ha o non trova…
Non credo che il coraggio sia il discrimine tra parlare o meno – o peggio, denunciare o meno – una violenza sessuale. Conosciamo molto bene il sistema in cui viviamo. Un sistema in cui ogni tassello rende fin troppo sventata la scelta di denunciare: forze dell’ordine, tribunali e media sono ostili, salvo rari casi. L’Italia l’anno scorso è stata sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo perché rivittimizza chi denuncia uno stupro, e so che anche la legge svizzera è andata molto a rilento sull’argomento. Potrei approfondire su forze dell’ordine e media, ma mi pare che sia sotto gli occhi di tutti il trattamento umiliante riservato a chi tenta la via della denuncia. Il 90 per cento delle donne violentate non lo fa: non sono poco coraggiose, così come il mio libro non rende coraggiosa me.
Quali sono le gabbie che imprigionano quel 90 per cento?
Potrei elencarle, ma ce n’è una che raccoglie tutte le altre gabbie: è quella che femministe di ogni tempo hanno descritto, da de Beauvoir a Virginie Despentes, col termine patriarcato. Una lettura che consiglio a chiunque storca il naso leggendo questa parola è ‘La rivoluzione delle donne’, un libro scritto da Abdullah Öcalan, per paradosso (ma solo apparente per chi sa chi è lui) un uomo.
La narrazione corrente ribalta i ruoli fra aguzzino e vittima, qual è allora la colpa di quest’ultima?
Si fanno le pulci a chi prova a dire ad alta voce quel che le è successo. In questi anni – nel mio lavoro per i giornali prima e dopo l’uscita di X ancora di più – sono stata molto attenta a come venivano prese le notizie sugli stupri. Quello che trovo estremamente interessante è che chi è in malafede trova sempre un modo di sconfessarci e silenziarci. Se hai la minigonna il problema è quello, e se hai i pantaloni? Se hai i pantaloni pure (la famosa "sentenza dei blue jeans", di pochi anni fa). Se eri a una festa era meglio che non ci fossi (tu, non lo stupratore); se stavi facendo jogging, non dovevi andarci da sola. Tutte bugie. Quello che sottintende chi non crede alle donne che denunciano stupri è che vuole controllarle, che devono stare mute e non osare alzare la testa. Pare che la stiamo alzando e che la alzeremo sempre, invece.
Perché c’è questo stigma e quali sono le sue radici? Come influisce sulle donne, ma anche sugli uomini?
Le radici dello stigma sono profondissime: in fondo la culla della nostra cultura è considerata quella greca. Chi era Zeus, se non uno stupratore seriale? Come influisca sugli uomini è una domanda interessante, e visto che ci sono pochi testi di autocritica alla mascolinità tossica, ma quelli che ci sono li trovo eccezionali, se posso consiglierei altri libri: Édouard Louis in ‘Chi ha ucciso mio padre’ e tutti e due i libri di quella scoperta folgorante che è stato D. Hunter per la letteratura contemporanea (almeno a mio gusto, insomma). Quando è un uomo a dirci come e perché il patriarcato fa schifo anche a lui, l’effetto può essere portentoso.
Quale attitudine deve avere allora chi si prende carico delle vittime di violenza sessuale? E la società in generale?
Ci vuole un grande sforzo collettivo, che a mio parere non può prescindere dal dialogo (in posizione di ascolto) con quelle realtà come Non una di meno – da voi forse ha un altro nome – che sulle corrette prassi si confrontano da anni, e a livello globale.
E il giornalismo che più o meno consapevolmente reitera un certo linguaggio, un certo immaginario e quindi una mentalità, quale ruolo ha?
Sul giornalismo ho esperienza solo italiana, e posso dire che la situazione da noi è gravissima. È stata la stessa Federazione nazionale stampa italiana a rilevare, sempre nel 2019, che l’85% delle giornaliste subisce molestie da capi o colleghi. È un dato fuori scala. Mi pare naturale che quando lo stupratore è il tuo capo, gli articoli non possono che essere intrisi di sessismo. A volte penso che i meri corsi di formazione siano come mettere un cerotto su un braccio in cancrena. Spero che da voi il giornalismo sia migliore.
La copertina del romanzo edito da Fandango nel 2021