Il diritto all’interruzione di gravidanza sta per compiere (appena) 20 anni. Una storia delle donne costellata di insidie da non dimenticare
“Ora che è stato riconosciuto alle donne il diritto di gestire lo Stato, dovrebbe venir garantito loro anche quello di gestire il proprio corpo”. Sono le parole pronunciate da una donna intervistata dalla Radiotelevisione svizzera francofona (Rts) agli inizi degli anni Settanta e contenute nel documentario di Alex Mayenfisch “L’avortement en Suisse, un délai de 30 ans - L’aborto in Svizzera, un termine di 30 anni”. Tale è infatti stato il lasso di tempo necessario dall’inizio del dibattito politico sul tema affinché l’interruzione di gravidanza nelle prime 12 settimane (questa l’opzione scelta) venisse depenalizzata a livello federale. Era il 2002 quando fu introdotta la nuova legge e il Paese – come d’altronde era avvenuto per il suffragio femminile – aveva un ritardo su molte altre nazioni, tra cui le vicine Italia e Francia, che si contava in decenni. Un periodo durante il quale centinaia di migliaia di donne continuarono ad abortire rischiando multe e pene detentive (come chi praticava gli interventi) e mettendo in pericolo la propria salute.
«In Svizzera esistevano dei cantoni più liberali in cui l’eccezione di non punibilità dell’aborto permessa in caso di “un pericolo che non può essere altrimenti evitato e che minaccia la vita della madre o mette a repentaglio la sua salute in modo grave e permanente” veniva estesa ai casi di disagio psicologico e sociale – spiega Marina De Toro, assistente archivista presso gli Archivi di Stato di Neuchâtel, che nell’ambito dei suoi studi in Storia contemporanea e Scienze storiche della cultura all’Università di Losanna ha svolto una tesi di Master sulla storia del diritto di aborto in Svizzera attraverso gli archivi audiovisivi della Rts –. Si trattava di Ginevra, Vaud, Zurigo, Neuchâtel, Basilea Città e Berna, dove veniva praticato il 98% delle interruzioni di gravidanza legali. Nel resto della Svizzera, costituito soprattutto da zone rurali o cattoliche come il Ticino, la definizione di salute era interpretata come una questione prettamente medica e non c’era alcuna struttura che permetteva l’aborto legale. Questa situazione da una parte creava un turismo ginecologico all’interno del Paese alla ricerca di un medico disponibile a dare l’autorizzazione e a praticare l’atto, mentre dall’altra, in particolar modo per le donne che non avevano mezzi per viaggiare o informarsi correttamente, alimentava il ricorso a pratiche clandestine talvolta dopo un lunga serie di angoscianti rifiuti». Quelle fatte di nascosto erano operazioni che presentavano importanti rischi per la salute e l’integrità fisica delle donne a causa delle pessime condizioni in cui venivano eseguite, della diffusa inesperienza di chi le praticava, e della mancanza di qualsiasi assistenza e controllo dopo l’intervento. “Non mi hanno fatto l’anestesia perché appena finita la pratica dovevano subito mandarmi via” racconta una giovane nel documentario di Mayenfisch; “mi è stata chiesta una grande somma di denaro”, testimonia un’altra. Alla fine degli anni Sessanta uno studio stimava in 21’800 gli aborti praticati legalmente ogni anno in Svizzera contro 50’000 clandestini; come nota De Toro «non si trattava unicamente di una minoranza marginale, ma era un fenomeno che toccava le donne di tutte le estrazioni sociali».
Di fronte a questa legge applicata in maniera non uniforme e che creava disuguaglianze, ricatti e sofferenza, nel ’71, quando finalmente le donne iniziarono a potersi esprimere in politica grazie all’introduzione del suffragio femminile, «la prima rivendicazione di una nuova generazione di femministe riguardò proprio la questione dell’aborto libero e gratuito – illustra De Toro –. Fu così creato un comitato indipendente che lanciò un’iniziativa popolare per la sua depenalizzazione e la conseguente revisione della legge contenuta nel Codice penale datata 1942. Il cinquantesimo anniversario celebrato quest’anno per il diritto di voto alle donne corrisponde anche a quello dell’inizio del dibattito sull’aborto in Svizzera». La raccolta di firme riuscì, ma a promuoverla fu solo un’esigua parte dei componenti della società: le suffragiste di estrazione borghese – che avevano a lungo lottato per il diritto di voto – al pari di partiti politici e sindacati decisero di non implicarsi nella causa portata avanti da uno schieramento di femministe radicali che rivendicava l’emancipazione della donna attraverso la liberazione del corpo. Secondo tale approccio che si riappropriava delle tesi marxiste sulla rivoluzione sessuale, la repressione della libera scelta di abortire iscritta nella legge dell’epoca – ma anche l’implicita forzatura a interrompere una gravidanza per poter continuare a praticare molte professioni – era vista come la più significativa manifestazione dell’oppressione verso le donne nel sistema patriarcale vigente.
«Al di là del radicalismo, bisogna considerare che la Svizzera non era abituata a sentire la voce femminile in politica, oltre a ciò a osteggiare la richiesta della depenalizzazione scesero in campo numerosi membri di ambienti cattolici e conservatori che erano molto influenti e che nel ’72 lanciarono una petizione chiamata “Sì alla vita. No all’aborto” – nome poi ripreso dall’associazione che costituirono – la quale chiedeva l’inasprimento delle disposizioni penali e una legge a sostegno delle famiglie, delle madri e dei bambini». A seguito di innumerevoli dibattiti in parlamento e mediatici – con tre distinti avanprogetti sul tavolo e numerose discussioni e opinioni nell’arena pubblica (“la vita inizia nel momento del concepimento e l’aborto è un omicidio da punire”, “il feto ha una realtà unicamente biologica senza statuto etico e giuridico”, “va rispettato il volere di Dio”, “sta solo alle donne decidere senza doversi giustificare”, ecc.) –, la questione dell’aborto venne abbandonata a livello politico in quanto nessuna alternativa repressiva o liberale riuscì a motivare una riforma della legge.
Negli anni Novanta il tema fu rilanciato con una nuova iniziativa. Il conseguente progetto che proponeva una depenalizzazione dell’aborto nei primi 3 mesi (soluzione detta “dei termini”) venne messo in consultazione nel 1997. Rispetto al passato si riscontrò una significativa rottura a livello di opinione pubblica, mediatica e politica in quanto l’iniziativa venne sostenuta da Verdi, Partito socialista, Commissione federale per le questioni femminili e dalle grandi associazioni femminili tradizionali. La liberalizzazione era considerata dalla maggioranza come la soluzione “meno peggio” per contrastare le pratiche clandestine e il turismo ginecologico. I toni si riaccesero e gli oppositori a quella che definivano “cultura della morte in Svizzera” tappezzarono lo spazio pubblico con manifesti truculenti e nel frattempo dichiararono battaglia anche alla commercializzazione della pillola RU-486 (poi introdotta nel 1999) che nelle prime 7 settimane consente un aborto farmacologico in alternativa a quello chirurgico. La situazione era tesa, con un dibattito ideologico e morale che ricalcava quello degli anni Settanta.
Nel 2002 giunge infine il momento di dare la parola al popolo: alle urne la soluzione dei termini è accettata dal 72% dei votanti, mentre l’iniziativa denominata “Per la madre e il bambino” degli antiabortisti viene rifiutata dall’82%. Negli anni successivi il pericolo paventato dagli oppositori all’aborto di un drastico aumento degli interventi di interruzione di gravidanza si rivela infondato. Al contrario, a partire dal 2002 se ne riscontrata una progressiva diminuzione. Il gruppo “Sì alla vita” decide allora di tornare all’attacco con una nuova iniziativa dal titolo “Finanziare l’aborto è una questione privata” con cui chiede che i costi degli interventi non siano più coperti dalle casse malati ma diventino a carico delle donne che fanno richiesta di interruzione di gravidanza. La votazione va in scena nel 2014; verdetto: il 69,8% dei cittadini che si esprimono dice no.
I costi rimangono dunque a carico dell’assicurazione malattia, un sistema sanitario per certi versi sì solidale, ma ben lontano dall’essere gratuito. Quanto alla questione della libertà rivendicata dalle femministe fin dagli anni Settanta, nella procedura in vigore la donna è ancora vincolata a un colloquio approfondito con un medico – addetto dunque a vigilare su di lei – e a una richiesta scritta in cui “fa valere uno stato di angustia”: non è quindi contemplata nei termini giuridici la libera scelta consapevole priva di una retorica della sofferenza.
Aprendo uno scorcio sul resto del mondo, tanti sono ancora i Paesi in cui l’aborto è illegale, e in alcuni si stanno perfino facendo dei passi indietro rispetto ai diritti acquisiti. «All’inizio della pandemia negli Stati Uniti, dove l’aborto è stato liberalizzato nel ’73 – evidenzia De Toro –, gli Stati ultraconservatori del Texas e dell’Ohaio hanno deciso di sospendere gli aborti in quanto ritenuti non fondamentali. L’impressione è che al cospetto di questa crisi mondiale, certi governi reazionari stiano approfittando della situazione per attaccare l’autodeterminazione delle donne. Anche in Polonia, dove la tradizione cattolica è molto forte e la legge in materia di aborto era già una delle più restrittive in Europa, all’inizio di quest’anno è stata resa illegale l’interruzione di gravidanza anche in caso di malformazione fetale». Un giro di vite che a settembre ha portato alla morte di una donna di 30 anni a causa di uno shock setticemico in quanto i medici, per attenersi alla nuova normativa, si sono rifiutati di praticarle un aborto terapeutico.
«Come dimostrano questi due esempi anche i diritti acquisiti, spesso durante un lunghissimo e tortuoso cammino, possono essere minacciati e revocati – valuta De Toro –. Mentre il corpo delle donne continua ad essere un campo di battaglia su cui tutti si sentono legittimati a prendere parola anche se non li concerne». Un corpo femminile insomma costantemente politicizzato, concepito non come un bene individuale ma comune; da tenere al centro dell’attenzione della società e al suo servizio; da possedere, difendere, segregare, mostrare, controllare.
La questione dell’aborto è uno dei tanti temi che ritorna con frequenza nello spazio pubblico, così come regolarmente si dibatte sui diritti delle donne. A tal proposito, su queste colonne il febbraio scorso la storica e professoressa Nelly Valsangiacomo – che ha seguito il lavoro di tesi di De Toro – ha proposto un intervento dal titolo ‘Il suffragio femminile ha 50 anni e li sente tutti’ di cui riproponiamo, per concludere, un passaggio significativo: “Forse non lo si toglierà più, il voto alle donne, perlomeno ad alcune, perché altre ancora non l’hanno, ma in una società strutturata attorno alle disuguaglianze di classe, di genere e di “razza”, pensare che non si debba lottare per mantenere le conquiste emancipatorie è pura illusione, o incoscienza, o buonismo. Ci sono voluti 50 anni per raggiungere una percentuale significativa di donne in parlamento e 50 anni per avere un numero un po’ meno esiguo di sindache e di donne nei consessi comunali, ma a distanza di mezzo secolo i discorsi, le rappresentazioni, le mille e una situazioni dietro le quali si celano i pregiudizi o una semplice visione opportunista delle differenze tra i generi, sono sempre lì, a ricordarci che se a livello individuale molte sono le donne che anche per temperamento, origine o fortuna, hanno potuto esprimersi e “farsi un posto nella società”, come si dice, a livello collettivo il pensiero dominante è lungi dall’essere completamente ancorato a una visione egualitaria”.