Si apre oggi la Fête des Vignerons diretta da Daniele Finzi Pasca. Siamo andati a scoprirla, fra spettacolo, memoria e tendine...
Sta nei dettagli l’ingresso della Fête des Vignerons nel nuovo millennio. Sul treno, a Losanna, l’incontro con una delle nuove Cent Suisses che, costume rosso d’ordinanza e smartphone alla mano, si dirige alla prova generale. A Vevey, appena fuori della stazione, la tradizione è impigliata nei baffi voluttuosi del campagnard che sorseggia il suo caffè, al tavolino di Starbucks. Sul lungolago, mentre si allestiscono alacremente bar e tendine provvisori, un florilegio di cartelloni ricorda che “Un rifiuto gettato a terra può finire nel lago”. Coscienza e portafoglio a posto, con perfetto pragmatismo elvetico.
La nuova sensibilità femminista, quella ambientalista e il consumismo di sempre, nostrano o d’importazione. Nella Fête des Vignerons 2019, a vent’anni dall’ultima edizione, Daniele Finzi Pasca ha voluto portare il valore della diversità, anche quella in apparenza fragile. E così, se uno dei personaggi considerati intoccabili era il messaggero zoppo, con la sua misera gamba di legno, lui lo ha sostituito con una (para)olimpionica che con la sua protesi corre i 100 metri.
Dopotutto, la stessa Confraternita dei Vignerons che celebra in modo sempre più spettacolare la propria missione, da una decina di anni si è aperta all’altra metà del cielo. E la Fête dal 2016 è entrata nel gran mondo, tradizione vivente del Patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’Unesco. Così, come si legge nel libro di Sabine Carruzzo-Frey che ne ripercorre la storia, alle proprie secolari certezze deve associare “i desideri, i valori e i dubbi dell’epoca contemporanea”. In un «nido» da 20mila posti che staziona in Place du Marché.
Eppure, ogni Fête è l’anello di una catena che discende a noi dal 1797. Quella che si apre oggi è la dodicesima in oltre due secoli: una ogni generazione, come noto. Perché, come si legge nello spazio bimbi del Museo della Confrérie des Vignerons, “ci vuole del tempo per riprendersi da un tale evento”. Così, mentre la piccola Julie in scena incontra la Memoria, Finzi Pasca è dovuto scendere a patti con i suoi punti fermi: i Cent Suisses armati di alabarda, la premiazione dei Vignerons, l’entrata degli armaillis e il canto del Ranz des vaches, con le suddette rigorosamente in scena a puntellare la sofisticatissima piattaforma Led dei propri ricordi più autentici.
Soprattutto, a dare la misura della continuità da cui sgorga la Fête è il suo territorio, sempre lì, aggrappato alle colline come un promemoria; legame tangibile fra cultura del lago e cultura della montagna, fra basso e alto, acqua, terra e cielo. Vedi scorrere i suoi terrazzamenti al di là del finestrino e ti vien da pensare che questo è il frutto di una cultura per noi aliena, capace di mutare in bellezza la propria operosità.
Alessandra è qui da una decina d’anni, nel suo dottorato all’Università di Losanna studia i modi con cui nel tempo i linguaggi dell’arte hanno restituito il Lavaux.
La sua rappresentazione artistica, mi spiega, è da sempre legata alla fatica e alle tradizioni che lo hanno modellato: «Fino al 1800 tutto questo era considerato un’opera d’arte dell’ingegneria agricola, poi è diventato paesaggio. Valorizzando il lavoro dei vignaioli si è appreso a guardare con altri occhi il territorio, che senza questo stesso lavoro non esisterebbe: è la particolarità di un paesaggio costruito».In effetti, lo spettacolo di Finzi Pasca si presenta come una celebrazione di tutto quanto concorre a questo miracolo che si rinnova di stagione in stagione, dal più piccolo granello di terra all’infinito del cielo stellato, in una sorta di cerimonia laica, spesso ironica, in cui ogni elemento del creato trova la propria collocazione.
Ma questa regione è le persone che la abitano. E che di generazione in generazione in scena concorrono alla riuscita della Fête. Sono 5’700 gli uomini e le donne in scena, più gli altri che hanno lavorato dietro le quinte: tutti volontari. Sul treno che ci porta alla prova, a Cully sale un nugolo di figuranti in costume: ci sono insetti, volatili variopinti, Suisses. Christiane è una effeuilleuse, le donne che si occupano di sfoltire la vigna, riviste da Finzi Pasca con gusto molto can can. Ci spiega che sono tutti passati attraverso un casting, oltre un anno fa, le prove a partire dall’autunno, da gennaio sul serio: «Ogni settimana almeno tre ore. E a noi è andata bene, quelli del coro 2-3 volte a settimana, tutto il giorno. Del resto noi abbiamo solo un quadro, loro cantano per tutti». Qualcuno in questo percorso ha mollato, ma a Christiane e ad altre migliaia questo entusiasmo non è venuto meno: «Nel 1977 ero troppo piccola, nel 1999 avevo troppo lavoro, questa era l’ultima possibilità».
Il costo stimato per la Fête 2019 è di 100 milioni di franchi. Vent’anni fa erano 54, nel 1817 16’254 franchi. Il prezzo dei biglietti oscilla fra 79 e 359 franchi; nel 1955, la prima edizione proiettata nel mondo, da 10 a 70. Un grafico dettagliato nel Museo della Confrérie dà pure conto di deficit e benefici di ogni edizione: nel 1999 l’utile era stato di 4 milioni, la questione è capire se quest’anno crescerà in proporzione con le spese. Nelle tendine attorno all’arena e sul lago è tutto un trafficare di tavoli, sgabelli, bottiglie, fusti di birra, frigoriferi. Le insegne recitano di cocktails e minerales, Pizza and Flam’s, Viandes et Grillades, Pirates Beach, Un autre terroir e Hamburger terroir...
Per la signora dai capelli corvini che per 3.80 ci serve un caffè troppo lungo da una macchina che promette uno “stile di vita italiano”, è la prima Fête ma, ci dice, il movimento c’è e si aspetta che vada de plus en plus. In una tendina fra l’arena e la navicella Ssr, mentre prepara i tavoli sul prato, una tipica veveysanne ci dice che forse si è giunti a «una dimensione troppo grande per vivere l’autenticità della festa. Però c’è tanta partecipazione e il vostro ticinese ha portato molto buon umore. E ci aspettiamo tanti visitatori». Ecco, appunto.