Industria dell'abbigliamento e produzione di rifiuti: le nuove strategie per ridurre l'impatto ambientale
Quanti jeans abbiamo nell’armadio che non usiamo? Perché non riportarli al negozio per farli riciclare? Perché non affittare di stagione in stagione, invece di acquistarla, la tuta super tecnica da sci? Una vera rivoluzione sta travolgendo l’industria dell’abbigliamento, che ha un grosso tallone di achille: l’enorme produzione di rifiuti. Ora siamo alla svolta, il nuovo mantra è ridurre l’impatto ambientale con varie strategie: condividere i capi; sviluppare prodotti che durino a lungo, composti da materiali rinnovabili, riciclati o riciclabili; raccogliere ciò che non si usa più, ripararlo e rimetterlo sul mercato e altro ancora. In Ticino c’è una delle più grandi multinazionali dell’abbigliamento sportivo, la Vf di Stabio – 800 dipendenti e una ventina di marchi, come Lee, Wrangler, Eastpak, The North Face, Napapijri, Vans, Timberland – dove si respira un’atmosfera dinamica e frizzante. Tutto è studiato per favorire la creatività, come le sale riunioni in tenda da alta quota, in un bus anni 70 o in una cabina da sci. Il motto è sostenibilità, una priorità per il pianeta ma anche per la generazione Y (dai 18 ai 38 anni) che è il target di riferimento. Come ci vestiremo in futuro ce lo spiega Anna Maria Rugarli, senior Director, Sustainability and Corporate Social Responsibility per Vf in Europa, Medio Oriente e Africa (Emea).
«L’economia circolare è un importante pilastro della nostra politica di sostenibilità. Vista la scarsità di risorse, la sfida è riciclare prodotti già creati», spiega la dirigente che è pure responsabile per lo sviluppo e l’implementazione delle strategie di sostenibilità. In futuro i vestiti non li acquisteremo più. «Studi sui nostri consumatori (la generazione Y) mostrano che non sono interessati a possedere tanti capi, vogliono piuttosto vivere un’esperienza e privilegiano l’affitto. Usano una costosa giacca da sci alcuni mesi, poi decidono se acquistarla o restituirla; l’anno successivo ne possono provare un’altra. Funziona così negli Usa». Oltre all’affitto, c’è l’abilità di dare una seconda vita a un capo. «È un modello di business che il marchio ‘the North Face’ ha appena lanciato negli Stati Uniti: le giacche, leggermente danneggiate, vengono riparate da un partner esterno, e poi rivendute. In passato venivano distrutte o finivano scontate all’outlet. L’obiettivo è quello di estendere il più possibile la vita dei nostri prodotti che sono di qualità. Stiamo lavorando a vari modelli di economia circolare per l’Europa», precisa. La vera sfida è capire come riciclare i capi di abbigliamento. «Fino al 2025, Vf ha l’obiettivo di usare il 50% di Pet e nailon riciclato in tutte le collezioni». Questo significa pensare in modo diverso. «Stiamo allenando chi concepisce e disegna un prodotto a farlo secondo la filosofia dell’economia circolare: significa sviluppare prodotti che durino a lungo, composti da materiali rinnovabili, riciclati o riciclabili. Gran parte dei tessuti che indossiamo sono multifibra ed è difficile riciclarli, ma stiamo studiando soluzioni». C’è anche un altro progetto pilota in corso in Europa: «Negozi come Timberland, Vans e The Nord Face, hanno creato contenitori per raccogliere la merce vecchia. Poi un partner esterno valuta se si può riutilizzare, dare a un’altra industria o gettarla via».
La tendenza attuale, spinta dalla ‘fast fashion’, è acquistare, acquistare, acquistare. Molto resta accumulato negli armadi, il tempo di utilizzo si è ridotto molto. «C’è molto da fare per educare a un consumo più consapevole», aggiunge. Oggi i prodotti di seconda qualità o desueti, vengono anche donati in Europa a Ong. Molto finiva anche nei paesi più poveri, ma è una rotta che non funziona più. «Ci sono paesi in Africa che non vogliono più vestiti di scarto perché stanno avviando un’industria locale di abbigliamento. Bisogna iniziare a pensare opzioni di business per ridurre i rifiuti, è una responsabilità delle aziende che non possono più girare la testa dall’altra parte», conclude.