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I Pooh e Phil Mer: ‘Peccato non ci fosse Stefano al mio posto’

Una sorta di ‘quinto Pooh’, ma dalla storia tutta sua. Siede dove sedeva D’Orazio: ‘Nessuna velleità di sostituzione, la sua maglia è stata ritirata’

Phil Mer
(Facebook)
9 febbraio 2023
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A chi chiede loro "mai strappato fiori sul palco?", a nome degli altri tre, Roby Facchinetti risponde: «I fiori li abbiamo regalati alle nostre mogli, alle nostre amiche e qualche volta anche alle nostre amanti». Archiviato il caso Blanco (anche se ‘Brividi’ non sarà più la stessa), il Festival di Sanremo ha salutato il ritorno dei Pooh sul palco che fu di ‘Uomini soli’. Le immagini sono di martedì: il lungo medley con molti dei successi della band fondata nel 1966 a Bologna, chiuso dalla canzone vincitrice del Sanremo 1990, cantata insieme al fu Stefano D’Orazio, sullo schermo nella strofa di competenza. «L’idea geniale di riportare sul palco l’immagine dello Stefano del ’90, in quel punto di ‘Uomini soli’, si deve ad Amadeus, un’idea che ha commosso anche noi. E riprendere l’inciso di ‘Uomini soli’ dopo quella commozione enorme non è stato facile. Stefano mi è arrivato in aiuto, perché quel passaggio è veramente molto impegnativo». E Facchinetti, quel La6 l’ha preso in pieno.


Keystone
Amici per sempre

‘Un attimo ancora’

Nel salone tutto lampadari del Casinò adibito a Sala stampa, il giorno dopo, i Pooh si concedono nuovamente dopo l’abbraccio dell’Ariston, per presentare ‘Pooh, un attimo ancora’, centinaia di cassette messe a disposizione dal gruppo per il docufilm che li celebrerà il 15 febbraio su Rai 1, e per il concerto di San Siro del 6 luglio prossimo, nella formazione Dodi-Red-Roby-Riccardo Fogli. Dodi Battaglia: «Nel 2016, i Pooh sono scesi dal palco perché stavano vivendo un momento particolare. La creatività fulgida non ci stava più percorrendo. E poi sono accadute tante cose, la morte di Stefano in primis, che ci ha segnati profondamente». C’entra anche la serata dedicata a Valerio Negrini, loro storico paroliere morto dieci anni fa, il prossimo 20 febbraio a Milano, Teatro Lirico. «Quell’occasione è sfociata nella proposta di Amadeus di partecipare al Festival. Da cosa bella nasce cosa bella». Un motivo in più lo aggiunge Red Canzian: «Durante le riprese del docufilm, i nostri figli hanno lavorato affinché questa cosa avvenisse». Tutto questo ha portato in Riviera, al documentario e a San Siro, atto unico. Chiosa Red: «È molto bello poter raccontare ai giovani quel che abbiamo fatto noi, ma ascoltandoli. Quand’ero piccolo, Claudio Villa se la prendeva coi capelloni: io non voglio essere quello che dice a tutti che non gli piace il rap e la trap. Ogni musica rappresenta il tempo nel quale si vive».

Oltre

La definizione è forse un po’ di comodo. Più che ‘il quinto Pooh’, Phil Mer alla batteria – figlio di Canzian, che incontriamo a margine dell’incontro di cui sopra – è musicista a sé. Batterista, compositore, suona anche con i Pooh. «Loro sono il lato umano. Nel caso di Red, quello di essere un padre, seppur acquisito, e nel caso degli altri, degli zii, persone con le quali ho vissuto e convissuto per tanto tempo, pur nel normale distacco professionale legato ai ruoli, com’è giusto che sia. Dal punto di vista musicale, i Pooh sono la storia della musica, e da quando hanno smesso, dal 2016, sono andati anche oltre: quando un gruppo si scioglie, è un po’ come un cantante che muore, viene consacrato al mito. Ho la massima stima e ammirazione per il loro percorso».

‘P’ come Pooh e come ‘Pino’

Phil Mer, figlio di Beatrix Niederwieser, seconda moglie del bassista dei Pooh, ha una storia di jazz, funk, rock. Session man, al fianco di tanti grandi nomi della canzone – siede oggi, e non da oggi, dove sedeva Stefano D’Orazio. Ecco come arriva a suonare con la band del padre: «Verso i sei-sette anni – ci racconta – andavo ai loro concerti, la prima infarinatura è stata quella delle loro canzoni. A quell’età mi hanno regalato la mia prima batteria professionale, che suonavo sopra i loro dischi, su quelli di Phil Collins e di altra musica pop. Poi, crescendo e studiando seriamente la batteria ho cominciato ad appassionarmi a generi che, tecnicamente, davano allo strumento una maggior espressione. Il jazz innanzitutto, perché chi suona la batteria non può ignorare le origini di questo strumento, che sono nel jazz». Tra i suoi progetti, i Capsicum Tree, o i The Framers, con i quali musica opere d’arte. Parallelamente, le collaborazioni col mondo del pop: la prima tournée, 23enne, con Pino Daniele, «colui che meglio di altri mette d’accordo il mondo del blues, del jazz e del soul».

Con i Pooh, Phil si ritrova a suonare nel 2010 e per quattro anni, quando Stefano lascia per la prima volta: «Ho adattato il mio stile per essere più rock, più incisivo, sempre cercando di portare nell’ambito pop-rock qualcosa della mia matrice più jazzistica. Una delle cose di cui mi preoccupo è l’utilizzo delle dinamiche, il fatto che non si suona sempre fortissimo, pestando come dei dannati; quello è un linguaggio, ma non l’unica soluzione, così come insegna l’improvvisazione, applicata a piccoli passaggi del medley di martedì sera».

Nelle cantine di fine anni 80 si suonavano i Pooh. Perché c’era tanto da suonare, perché c’erano tecnicismi da riprodurre. Perché i Pooh vengono da una stagione di strumentisti, oltre che di interpreti. «Sì, oggi tutto questo non è più scontato», conferma Phil. «Negli anni 70 e 80 la musica la facevano i musicisti; negli ultimi anni la fanno anche i produttori. Non credo che esista un meglio e un peggio, si arriva allo stesso risultato, un manufatto artistico che possa piacere alla gente. La cosa vale anche per i cantanti: la cantante odierna non è necessariamente ‘una che canta bene’, può anche cantare con l’autotune, e magari non capisci le parole, ma ha una cifra interpretativa che arriva al pubblico al quale si rivolge».

‘Parsifal’

‘Oltre’ è anche una delle parole del Festival. È la speranza che la canzone superi la settimana di massima esposizione e poco più. Come ‘Uomini soli’ e il resto di un medley che far la sintesi di cinquant’anni di carriera non è cosa facile. «La canzone vince sempre, ma anche nella musica che non necessariamente deve restare. Anche nel solo brano estivo, che nella qualità della sua architettura deve avere la capacità di restare e conquistarti, anche per un periodo breve». E poi ci sono i classici: «Quelli dei Pooh sono evergreen. Magari su quattrocento canzoni di altissimo livello ne ricordiamo non più di dieci o venti, e non è solo una questione di qualità, ma anche di statistica». Il brano dei Pooh che, come batterista, ti stimola di più? «Forse quello che mette d’accordo tutti è ‘Parsifal’, per cambi di tempo, dinamiche, tensione. Questa suite prog composta negli anni Settanta festeggia quest’anno i cinquant’anni di storia, coi suoi mondi compositivi e strumentistici che dal vivo coinvolgono».

Chiudiamo con Stefano D’Orazio. «La sua maglia è già stata ritirata. Siccome la batteria è necessaria al repertorio dei Pooh, io mi occupo di suonarla, ma il mio contributo finisce qui, senza alcuna velleità di sostituzione. È chiaro a me, ai fan dei Pooh e a tutti quanti. Sono sincero: ieri mi sarebbe piaciuto poter vedere Stefano all’Ariston, al mio posto».