‘La vita segreta delle iene’ di Marcus Baynes-Rock racconta l’unicità di una città etiope dove animali selvatici e umani hanno imparato a convivere
Siamo sempre stati estremamente abili a tracciare una linea netta che ci separi dagli animali: noi abbiamo il nostro linguaggio, le nostre leggi, i nostri pensieri, la nostra “cultura”… loro, vocalizzazioni e istinti. Basti pensare, come coronamento, alle scienze che si dedicano allo studio delle diverse specie: zoologia e antropologia. La prima le studia tutte, tranne una. La nostra.
“La responsabilità di studiare quell’ultima specie residua, e soltanto quella, come pure di scriverne, ha determinato in modo negativo l’impostazione della ricerca antropologica. Nello studio di culture che coinvolgono gli animali – per esempio quelle dei cacciatori-raccoglitori – gli antropologi prestano scarsa attenzione al versante degli animali, benché essi possano decisamente influenzare la vita degli esseri umani, e non soltanto con la loro esistenza, ma con i comportamenti che hanno scelto di adottare. […] Quando gli antropologi si dedicano allo studio degli esseri umani, ovviamente menzionano anche gli animali, ma solo in quanto hanno valore per noi, oppure perché compaiono nella mitologia. Una volta considerati miti ed economia, il lavoro è terminato”. Elizabeth Marshall Thomas, etologa americana e autrice di numerosi libri, racconta nella prefazione di ‘La vita segreta delle iene’ (Adelphi 2024) come questo abbia influenzato anche una sua ricerca, negli anni Cinquanta, sui boscimani di lingua !kung nel deserto del Kalahari, mai venuti a contatto con altre popolazioni. Condividevano la scarsa acqua di alcune pozze con un branco di leoni, che però non predavano queste persone, a differenza di quanto facevano leopardi e iene. Sembrava esserci una specie di “tregua”, un freno antico che doveva esistere per una buona ragione, che però non verrà mai scoperta: gli studi antropologici fatti raccoglievano dati sulla tradizione orale dei boscimani a riguardo, ma niente altro. Il contatto con la nostra civiltà comportò la comparsa, nell’equazione, del bestiame, che attirava i leoni, uccisi da guide e turisti europei: gli equilibri cambiarono, e ora i felini cacciano anche gli esseri umani. La tregua è conclusa.
Anche a parti invertite ci si perde qualcosa: gli zoologi studiano gli animali in parchi naturali, dove questi ultimi non hanno contatti diretti né con i visitatori, né con chi li studia. Eppure, prima dell’istituzione dei parchi, le interazioni tra le specie erano continue, e modificavano le rispettive culture. Questo è il motivo per cui ‘La vita segreta delle iene’ è un esperimento così interessante: è un’immersione in una convivenza stretta tra mondi diversi, cercando di studiarli insieme. Marcus Baynes-Rock ha affrontato “un gruppo di individui, in parte esseri umani e in parte iene, come se appartenessero a un’unica cultura mista, la cultura multistrato di Harar, città oggetto delle sue ricerche in Etiopia. E perché questo è importante? Perché, quando si tratta di relazioni e di mescolanze di stili di vita, sul pianeta non vi è forse una sola forma di vita che si limiti a interagire con i propri simili”.
A Harar c’è chi dà da mangiare alle iene per farne un’attrazione turistica, chi lo fa perché ama gli animali ed è da loro affascinato. Vi è uno scambio in atto, in tutto questo: le iene ne ricavano cibo, le persone denaro, oppure una risposta al bisogno di accettazione, di presenza ravvicinata. Ci sono poi le discariche, veri e propri supermarket. Questa coesistenza è possibile perché entrambe le specie hanno modificato la propria percezione dell’altra, aumentandone la comprensione. Le iene rimangono selvatiche pur entrando nelle zone abitate, comunque capaci di cacciare anche per conto proprio, ma non attaccano le persone. Gli esseri umani hanno quasi totalmente perso il terrore atavico per questo predatore. Tutta una serie di credenze popolari è ispirata a comportamenti reali, osservati e compresi.
Eppure le iene non sono animali “semplici”. Di tutta la megafauna carismatica, sono quelle che ci dimentichiamo più facilmente, sono “detestate, denigrate, temute, dileggiate, perseguitate e, dove le popolazioni ne hanno i mezzi, sterminate”. Di solito i grandi carnivori incutono rispetto, ammirazione, almeno a chi non è interessato dal punto di vista economico dalla loro caccia: le iene no. Né nei locali, né negli occidentali. In fondo siamo antichi nemici: veniamo da milioni di anni di predazioni (subite) e conflitto per le risorse. Dal punto di vista delle pubbliche relazioni, poi, questi animali non si aiutano molto: le loro abitudini notturne, l’andatura sgraziata, la risata quasi umana, la consuetudine di nutrirsi di carogne ed esumare cadaveri ben si accordano con paure, pregiudizi, superstizioni e supposti fini maligni. Le dimensioni dei genitali esterni femminili spingono molti a considerarle esseri ermafroditi, uno scherzo della natura.
Malgrado le reazioni di disgusto e perplessità manifestate da molti riguardo agli studi di Baynes-Rock, quest’ultimo è riuscito in qualcosa di tutt’altro che comune: riconoscendo le differenti soggettività delle iene, è stato a sua volta riconosciuto come essere umano “peculiare”, al quale alcuni esemplari hanno permesso particolari interazioni e una qualche integrazione all’interno del clan. Se da un lato gli veniva comunicato il fastidio per l’uso della torcia e la vicinanza eccessiva in alcune situazioni, dall’altro veniva coinvolto in momenti di gioco, o “sfruttato” per sfuggire ai cani o a iene di un altro clan, soprattutto se in ballo c’era qualche osso particolarmente desiderato. Per capire quanto questo sia straordinario, non bisogna dimenticare che “le iene, istintivamente, hanno il terrore degli esseri umani […]. Milioni di anni di competizione con le grandi scimmie erette, e da ultimo la persecuzione subita da parte loro hanno inculcato nelle iene maculate un impulso quasi irresistibile a fuggire lontano, e molto velocemente, da noi”.
Una reazione automatica, fin da quando sono in grado di alzarsi e camminare, che però non è immodificabile: si tratta di una specie flessibile, in grado di superare una paura istintiva se questo comporta dei vantaggi. Harar è un caso unico da studiare proprio perché da entrambi i lati vengono compiuti sforzi per la convivenza: nel resto dell’Etiopia non è sempre così, nella capitale le iene sono temute, non si limitano a cacciare il bestiame, uccidono anche le persone. E c’è chi lascia un lavoro con il turno di notte per la paura delle iene.
A Harar sono messaggeri dei santi, catturano e divorano i jinn (più o meno dei geni) malvagi e ne vomitano unghie, pelo, qualche volta le dita. Non si tratta di storie inventate senza costrutto, ma basate sull’osservazione di quello che fanno le iene. Questi animali non rigurgitano il cibo per i cuccioli, ma vomitano quello che non riescono a digerire, come peli, zoccoli, frammenti di ossa. In più, quando ululano, lo fanno con il naso puntato verso il terreno, con tutto il corpo in tensione, come se stessero facendo qualcosa di significativo e gratificante. Perché non concludere, allora, che stiano risucchiando dal terreno uno spirito invisibile? Per il loro ruolo di protettori, meritano di ricevere cibo.
Qualcuno potrebbe obiettare che abituare un predatore alla presenza umana non sia una buona idea. Eppure, questo ha fondamento in un paradosso, descritto da John Knight, della Queen’s University, nel suo articolo ‘Making Wildlife Viewable: Habituation and Attraction’. Le qualità che rendono gli animali selvatici attraenti per i turisti – la loro natura selvaggia, l’imprevedibilità e la tendenza a evitare gli esseri umani – sono esattamente gli aspetti che devono essere smorzati per renderne possibile l’osservazione. Chi visita Harar desidera vedere le iene e ha tempo e budget limitati. Dei due siti dove venivano nutrite, le guide tendevano a portare i turisti in quello dove questo avveniva nel modo più strutturato e prevedibile: un incontro di qualche tipo, anche se magari deludente, era meglio di nessun incontro. Questo dovrebbe farci riflettere sul rapporto che abbiamo con tutti i selvatici, su come vogliamo che questo evolva. E anche a cosa siamo disposti a rinunciare, perché la convivenza richiede sempre una parte di mediazione.
‘La vita segreta delle iene’ – il titolo inglese, tradotto letteralmente, sarebbe un più sobrio ‘Tra i mangiatori di ossa. Incontri con le iene a Harar’ – è un libro atipico, perché fuori dal comune sono le ricerche che racconta. Invece di essere lo studioso super partes a cui si è più abituati quando si tratta di animali, che si limita a seguirli con i radiocollari e raccogliendo dati a distanza, Marcus Baynes-Rock si immerge da vero antropologo nella relazione tra le iene e gli abitanti umani della città, raccoglie aneddoti, leggende, credenze popolari e ne trova spesso un senso in quello che vede. Stringe legami con molti dei membri di questa società mista, riconoscendo la soggettività sia a chi aveva due gambe, sia a chi procedeva su quattro. In questo si avvicina molto alla posizione degli abitanti della città, per i quali le iene sono “persone con stati mentali”. “Per chi lavora nel campo delle scienze biologiche, l’ipotesi nulla assume che i mammiferi diversi dagli esseri umani non lo siano. In entrambi i casi, alla base delle politiche verso le iene c’è questa attribuzione o meno, comunque soggettiva, dello status di persona. La costruzione delle iene fornita dalle scienze ‘dure’ tuttavia predomina, non solo per via del rigore accademico, ma a causa della sovrarappresentazione e del linguaggio attentamente costruito che genera tali realtà”. Questo si traduce in politiche ambientali che potranno solo essere generiche, e che hanno fatto passare le iene da “animali nocivi” a “risorse naturali” che possono essere gestite, trasferite e abbattute. Il riconoscimento della soggettività da parte della popolazione del posto, che “genera politiche di rispetto e autentici sforzi di coesistenza”, viene soffocato.
Questo libro è per chi è interessato alla questione dei carnivori e in generale della convivenza con la fauna selvatica, qualunque sia la convinzione che ne ha a riguardo, o per chi desidera leggere di vita e studi in terre lontane in modo scorrevole, narrativo e soggettivo, senza rendersi troppo conto che si tratta di un saggio.