A colloquio con Elettra Fiumi, cui si deve il documentario sul primo Lugano Dance Project del Lac. Venerdì 11 agosto alle 15, première a Muralto
La danza non è tra i suoi soggetti primari. O almeno non lo era. «Sono regista e giornalista interessata a tante tematiche. Il mio fine è l’approccio alle storie, m’incuriosiscono i mondi, le teste delle persone. Lavoro sulle dinamiche e sui movimenti più che focalizzarmi su di una tematica. E la danza si presta molto bene a essere declinata cinematograficamente, movimento, musica, luci, personalità, storie espresse dai corpi». Quella di Elettra Fiumi, i cui Studios portano il suo cognome, è una mezza verità: «Certo, la danza mi ha sempre affascinato personalmente, ho fatto corsi, dalla danza classica all’hip hop al flamenco. Non sono un’esperta, ma mi piace vederla, e farla. Questo progetto mi ha permesso di approfondire il tema e ho avuto il lusso di poterlo fare con personaggi molto accattivanti, tre donne portatrici di filosofie di danza molto distinte».
È di ‘Dancing Free’ che parliamo, documentario nel quale la cineasta, produttrice ed editor italoticinese cattura l’essenza della prima edizione del Lugano Dance Project, il festival di danza contemporanea del Lac. Il Locarno Film Festival ne ospita la prima assoluta oggi alle 15 al PalaVideo (Palazzo dei Congressi Muralto, entrata libera). Era il 2022 quando l’idea di Michel Gagnon, direttore del centro culturale, trovava forma definitiva. Protagoniste delle tre produzioni di casa furono la canadese Virginie Brunelle con la fisicità del suo ‘Fables’, la statunitense Annie Hanauer con la disabilità danzante in ‘A space for all our tomorrows’, e Lea Moro con la meditazione acustico-performativa di ‘Another Breath’, al centro il respiro, ‘rivisitato’ per la danza nei giorni della pandemia. Fil rouge della prima edizione, il Monte Verità, e dunque l’utopia. «È stato un vantaggio e insieme una sfida trovare nel montaggio e nella scrittura il nodo di attraversare il loro mondi», prosegue la regista. «L’elemento comune dell’utopia le ha unite, consentendo uno sguardo unico su donne guidate da filosofie assai differenti».
Dancing Free’ si apre nella Montrèal ancora ‘mascherata’ dall’ultimo e definitivo rigurgito pandemico, là un poco più lungo, per spostarsi indifferentemente a Lugano, Ascona, Zurigo e Delémont, catturando il privato e il pubblico – le prove – fino allo spettacolo. «Siamo entrati nel progetto a dicembre, le ragazze avevano già firmato i contratti anni prima, la pandemia aveva provocato ritardi. Arrivare all’ultimo, è stata per noi un’altra grande sfida». A livello produttivo, dice Elettra, «è stato difficile trovare l’equilibrio giusto nel tempo che ci è stato concesso per seguire le artiste. Avrei voluto ritrarle ancor più da vicino, ma lo abbiamo fatto con la massima attenzione durante le prove, sempre misurando gli spazi reciproci e sempre in base alle loro indicazioni, a volte usando lenti per avvicinarci da lontano e facendo leva su un Dop (direttore della fotografia, ndr) come il romano Edoardo Anselmi, particolarmente bravo a catturare gli ‘attimi fuggenti’». Altro tempo, assai gradito alla regista, è arrivato dall’apertura di Brunelle, Hauer e Moro alle rispettive vite private: «È stato un momento di grande importanza, perché il processo creativo generalmente avviene nel privato; le sale di prova c’è l’esecuzione, nelle case l’illuminazione, anche se le prove sono sempre teatro di un continuo rielaborare, come le più versioni di un libro o di un montaggio cinematografico, per tendere alla perfezione». Perfezione che è un altro dei temi del film.
In tre specifici momenti, uno per ognuna delle tre protagoniste, il documentario si stacca dal documentare e, a suo modo, ‘danza’, diventa performance nella performance. È il caso del sound design applicato a Lea Moro in un bosco, o alla ‘polvere magica’ (la regista la chiama ‘fairy dust’) che cattura il momento dell’intuizione, almeno per Virginie Brunelle, che crea seduta, cuffie stereofoniche in testa. Elettra: «Volevo mostrare al pubblico la loro immaginazione, e per lo studio dell’immagine e del suono ho fatto tante pre-interviste per capire cosa albergasse nelle loro teste, e insieme abbiamo sviluppato momenti onirici. Lea è nel bosco, posto nel quale va di norma per sviluppare la sua creatività. Essendo la sua performance basata sul respiro, ho voluto unire i due elementi. Grazie a fonico Tommaso Zerbini e al sound designer Paolo Piccardo, abbiamo catturato una quarantina di livelli audio, un piccolo incubo per i montatori, una chiave per entrare nell’immaginario, con la natura già di per sé onte d’infinita ispirazione. Quella è una delle mie scene preferite, la prima costruita come test del film. Nel bosco è stato un momento magico, che abbiamo cercato di applicare anche alle altre donne». A Virginie Brunelle, per esempio, che crea seduta, cuffie stereofoniche in testa, e alle spalle una polvere magica («Fairy dust, la chiamo io»), la moderata esplosione di colore che pare il materializzarsi di un lampo di genio.
Elettra Fiumi è al suo secondo documentario. Il primo, personalissimo, s’intitola ‘Radical Landscapes’ (2022) ed è concentrato sull’esperienza di scoperta degli archivi del padre Fabrizio, attraverso il suo coinvolgimento con il gruppo di architettura radicale 9999. «Con ‘Dancing Free’ credo di avere spostato l’intimità dall’architettura alla danza, affrontando una tematica più fisica e addentrandomi in scene quasi fiction, e questo mi ha stimolato tanto, sempre nell’ottica di avvicinarmi il più possibile ai miei personaggi, fino a entrare nella loro testa per cercare di capire le loro motivazioni, per portarle fuori, in vita». E visto che ‘Dancing Free’ è il resoconto di un’utopia, proviamo noi, questa volta, a entrare nella testa di Elettra, in cerca della sua utopia. Che sono due: «Una è senz’altro la natura, l’altra è il processo creativo».
Quanto al processo creativo, «quando cerco di raccontare una storia arrivando al cuore, questo è utopia, nel senso che è magia per l’immaginarla perfettamente riuscita e, insieme, conflitto per il non poterla toccare». Quanto alla natura: «Giorni fa sono stata sul Monte Tamaro per la prima volta e ho riflettuto sul tema del film, sdraiata sul prato, investita dai suoni del vento, da quelli delle mucche, sentivo il momento idillico della vita, quando il tempo è sospeso. E qui torna il processo creativo, perché mentre cerco di risolvere i dettagli di una costruzione, vado nella natura e riesco a trovare le mie risposte».
Michel Gagnon, direttore del Lac, ricostruisce la forma del Lugano Dance Project, sorta di prolungamento naturale della programmazione di danza contemporanea del Lac: «Abbiamo deciso di compiere un passo ulteriore nel creare un rapporto con il nostro pubblico, immaginando un dialogo e uno scambio, un’area di attenzione e approfondimento con artisti e luoghi di creazione e produzione di respiro internazionale. È stata questa la premessa che ci ha spinto a pensare a un vero e proprio festival, totalmente inedito, che potesse diventare luogo privilegiato capace di offrire a giovani artisti l’occasione di presentare le loro creazioni a una platea di operatori del settore provenienti da tutto il mondo». Gagnon parla di «città della danza», quale Lugano è stata dal 22 al 25 maggio dello scorso anno e tornerà a essere dal 12 al 16 giugno del prossimo. E ringrazia Elettra Fiumi: «Il suo impegno ci ha permesso di essere qui a presentare questo film, oggetto prezioso che si fa memoria».
Elettra Fiumi