Una ragazza in fuga, intrappolata in un limbo. Il film del collettivo Negu ripercorre il trauma del conflitto basco
Degli spazi vuoti, oscuri aprono un film interessante e primo lungometraggio per quest’unione di quattro film-makers. Immagini infernali e rumori sordi, accompagnati dalla citazione di un pezzo di Mikel Laboa, cantautore basco; ‘Negu hurbilak’ è l’inverno che si avvicina ma che, come poeticamente dice la canzone, non fa paura, perché il calore dell’estate si trasmette dal presente nel futuro. Un messaggio che riflette una sorta di speranza infranta, un tentativo di guardare oltre la coltre di nebbia che avvolge il trauma della guerra civile, ambientato poco dopo l’armistizio dell’ETA nel 2011. Un viaggio sospeso nel tempo di una ragazza, in fuga per motivi politici, costretta a guardare la vita scorrere lentamente dalla finestrella di un fienile, in un territorio umido, remoto, fatto di silenzi che riempiono e inghiottono gli spazi.
La protagonista arriva di nascosto a Zubieta, comune nella regione autonoma spagnola, viene aiutata dai locali e trova riparo da un’anziana signora. Visibilmente impaurita e con un evidente distacco e chiusura, la ragazza parla solo se necessario e attende, nella speranza di ricevere quel passaggio che le farà attraversare la frontiera. Il suo luogo di permanenza diventa la fattoria di un taciturno allevatore di pecore e capre, dove il tempo scorre inesorabile, un tentativo di partenza si risolve in nulla e le sue prospettive, quelle di abbandonare quel luogo solitario e sconosciuto, si fanno sempre più difficili. Il silenzio permea spazi interni ed esterni, rotto solo da qualche belato e dalle voci provenienti dalle radio accese dei paesani, che riportano informazioni riguardo la cessazione delle ostilità nel conflitto basco, nascondendo però, dietro alle parole di buon auspicio, uno strato di abbattimento e di amarezza.
Un approccio registico distaccato e contemplativo, nel tentativo di penetrare e cogliere le profondità di un personaggio ermetico, in costante attesa e il cui sguardo si perde, cercando tra la nebbia una via d’uscita che è letterale quanto simbolica. Piani-sequenza e lenti movimenti di macchina, in un’atmosfera surreale che ricorda quella tarkovskiana di Stalker, tra vapore e spazi aperti, colline verdeggianti che solo si intravedono e sopra le quali si estendono tramonti idilliaci, quasi come celati alle creature terresti di questo non luogo. In furtività e con precisione lo spettatore si inserisce come un fantasma e si avvicina, timidamente, verso un soggetto che non sembra voler essere proprio disturbato, ma il cui timido sorriso nasconde una necessità di uscire da una situazione di solitudine. Un rispetto del personaggio che strizza l’occhio al cinema del reale, focalizzandosi sulla contemplazione di un ambiente silenzioso, dove ampio è lo spazio concesso al pensiero di chi guarda e che, grazie a uno straordinario uso del fuoricampo, ottiene la sua vita propria. Un film che riflette una particolare visione della condizione umana caratterizzata da una contraddizione tra abbattimento e speranza, tra il minimo della vita campagnola e l’eccesso di quella violenza lontana che solo echeggia tra le mura delle case isolate.