Dal cinema caraibico firmato Open Doors arriva un appassionante monumento ai sotterfugi ecclesiastici, dal sapore dolce-amaro
Nonostante il Cristianesimo stia perdendo progressivamente la sua storica presa sulle persone, ancora molti sono coloro che rimangono tra le sue schiere di fedeli, ad esempio in Sud Italia, nella penisola iberica, nel centro e in Sud America, corrispondendo circa al 30% della popolazione globale. Legato in un certo modo al folklore locale e quindi radicato nella cultura, sopravvive, nonostante le critiche degli ultimi decenni nei confronti dell’exploit millenario da parte della Chiesa cattolica e sull’attendibilità stessa delle Sacre Scritture. Il regista Tito Jara si concentra – ne ‘El Rezador’, film critico ma che sa anche essere leggero – proprio sugli aspetti negativi della religione, in un Paese caratterizzato da un enorme mercato; icone, miracoli, santi e reliquie costituiscono una possibilità, per alcuni, di arricchirsi, a danno delle povere persone devote e schermate dalla realtà nuda e cruda della vita di strada. Una visione estremamente attuale che si fa anche beffe della devozione religiosa, qui collegata a una sorta di ignoranza collettiva, ma senza essere moralista né aggressiva nell’espressione della propria laicità.
In questo scenario, nella periferia ecuadoriana di Quito, Antanacio Di Felice è un artista della truffa estremamente abile nella conversazione e nella manipolazione dei credenti cristiani. Nascosto dalla professione di prete, abbindola i vulnerabili accecati dalla fede in Dio, dando loro consigli medici e vendendogli farmaci inefficaci. Minacciato, a causa di un debito, dalla gang locale capitanata dalla misteriosa Tia, intravede una possibilità di lucro in una bambina della periferia alta della favela, Gema, che pare essere in grado di guarire miracolosamente le persone. Deciso a sfruttare il vero e proprio culto di devozione che si sta creando, Antanacio riesce a convincere i genitori, Carlos e Nela, a seguire i suoi consigli per riuscire a trarre il massimo beneficio finanziario. Tuttavia, i problemi insorgono e influenzeranno Antanacio in modo tale da fargli gettare la propria maschera e abbracciare finalmente quella fede che, probabilmente, non ha mai veramente avuto.
Un incipit in medias res che tanto è caro al genere poliziesco ma che poi fa prendere al film una sua direzione, senza nascondere il proprio disprezzo teologico ma comunque, alla fine, rispettandone i valori più significativi, primo su tutti il martirio. Non solo Antanacio si sacrifica per salvare quella bambina che voleva sfruttare a ogni costo, ma si convince anche dell’esistenza di un effettivo potere soprannaturale della bimba, che in realtà ha qualche problema mentale non meglio specificato ma noto alla madre Nela.
Il protagonista è un truffatore che si convince del suo stesso inganno, quindi si redime attraverso il sacrificio massimo cristiano e lo trasforma, ritornando a quel Dio che ha sempre ignorato, linciato dalla folla ma consapevole che le sue azioni hanno concesso a una madre e a sua figlia un futuro. La sua punizione divina, o meglio umana, è in realtà molto simile a un’ascesa, utilizzata per dimostrare anche quell’ipocrisia religiosa per la quale la sacralità della fede si scontra con la realtà sconcertante di un Paese come l’Ecuador. Brillante e magnetica l’interpretazione degli attori, di Andrés Crespo su tutti, capace di incantare con il suo carisma personaggi e spettatori: i preconcetti vengono ribaltati e ci si ritrova a parteggiare per questo anti-eroe moderno nel suo inesorabile viaggio verso l’onestà.