Era in Piazza con ‘Un femme de notre temps’. Convive pacifica col manifesto generazionale che la lanciò, crede nel lavoro ‘ma è più utile l’esperienza’.
«Quattro cuori è assurdo. Capisco uno. Già due son troppi». «Io i cuori al massimo li mando blu, rosso mai». «Io li mando i cuori, ma uno, o due. Sì hai ragione, quattro cuori è assurdo». «Io non li mando i cuori. Una volta gli ho mandato uno smile e lui ha scritto: «Allora ti piaccio!». E non l’ha ancora capito che non mi piace».
Da McDonald’s all’hotel designato è un quarto d’ora a piedi. Hai un’età, e per quanto nella sua carriera sia accaduto dell’altro, ti rendi conto che per te Sophie Marceau è rimasta sempre Vic Berretton. Sarà che al tavolo di fianco va in scena un ‘Tempo delle mele’ coi telefonini al posto dei bigliettini e gli emoticon al posto degli alfabeti segreti; sarà che la tua infanzia ha dei piccoli traumi mai superati: la visione de ‘Il tempo delle mele’ col tuo compagno di banco, tu e lui da soli a guardare Mathieu che mette le cuffiette sulle orecchie di Vic mentre in un cinema del centro città, di domenica pomeriggio, tutti intorno a te limonano felici.
Era il novembre del 1981, e ancora sogni di mettere le cuffiette sulle orecchie di Vic. Ora è l’agosto del 2022 e pensi che potresti farlo alla fine dell’intervista, ma una voce dentro di te ti dice che verresti portato via dal servizio di sicurezza. Peggio ancora: Vic ti direbbe che sei uno sfigato. O ti romperebbe le cuffiette, calpestandole davanti a tutti (meglio chiedere un autografo: è più dignitoso, e fa molto anni 80).
© Locarno FIlm Festival
Sul palco di Piazza Grande
«Locarno è un Festival meraviglioso. Non sono ancora stata in Piazza Grande, ma credo che stasera (ieri sera, ndr) sarà emozionante». Improvvisamente, poco importa se in ‘Une femme de notre temps’, in prima mondiale a Locarno75, Sophie Marceau indossa i panni di un commissario di polizia che insegue il marito nei boschi con arco e freccia, reo di tradirla con una 20enne e, ancor prima, con quanto di più caro avesse.
Imbarazzati dalla convinzione che il film non sia degno del valore di Sophie Marceau, meglio spostare l’attenzione sul personaggio. «Juliane è una donna diretta – esordisce l’attrice – con un lutto non ancora elaborato e sofferenze inattese. È un poliziotto, lavora in un ambiente virile, ma c’è sempre qualcosa di femminile in lei. L’unica sua via d’uscita è credere in ciò che è, radicale, onesta con sé stessa, libera per come non accetta compromessi e distorsioni. Viene tradita dalla persona che ama e in cui crede; tutto collassa, lei si prende tutte le responsabilità delle proprie azioni». Per il processo di osmosi attore-personaggio: «Juliane deve selezionare, deve prestare attenzione ai sentimenti, essere aperta a quel che le accade. Ognuno ha a che fare con tutto questo nella vita, ognuno deve trovare un proprio posto nel mondo, relazionarsi con altre persone. Si tratta di essere flessibili, adattabili, senza perdere la direzione. Credo sia possibile, poco per volta».
Come si colloca Juliane tra le donne della sua carriera? «Ho sempre avuto bisogno di apprezzare i miei personaggi. Anche guardando indietro, posso dire di averli amati tutti. Li ho difesi, mi sono assicurata che la gente li capisse, ho preteso che fossero reali, che avessero cose da dire, qualunque fosse il proprio destino, compreso quello tragico di Anna Karenina (nell’omonimo film del 1997 di Bernard Rose, ndr). Amo queste donne perché soffrono, perché combattono per la proprie vite». E in quanto donna, Julian non è più ‘del nostro tempo’ di quanto non lo fosse chi l’ha preceduta: «Una donna del nostro tempo è universale, è ‘di tutti i tempi’. La storia è fatta anche di donne che sono andate per la propria strada, indipendenti, autonome. Certo, il fatto che Juliane sia una donna moderna non significa che le donne di oggi debbano uccidere… (ride, ndr)».
Allargando la prospettiva: c’è qualcuno in particolare che vorrebbe cacciare nei boschi e riempire di frecce? «Odio le armi. Le uso sul set, ma la loro malvagità mi provoca una sensazione da ‘Signore degli Anelli’». Lo stesso vale per l’arco: «Durante la lavorazione l’ho posato ogni volta che ho potuto: non sai mai cosa possa venire da un oggetto simile…». Tra le sue donne ci sarebbe anche una Bond Girl, ma «non ero una Bond Girl, ero una normale truffatrice».
© Locarno Film Festival
Sophie Marceau a Locarno75
A vent’anni da ‘Parlez-moi d’amour’, sua prima esperienza registica, nonostante un ‘Prix pour la mise en scène’ a Montreal, di regia Marceau non vuole più saperne: «Ci sono cose che altri fanno meglio di te. Per quanto tu abbia una crew tutta per te, sei sola: devi dire cosa vuoi, come lo vuoi, devi avere chiara la rotta, tenere insieme le parti. Affascinante, ma non ho intenzione di dirigere alcunché ora. Ma se trovassi una buona storia…». A questo proposito, da attrice: come sceglie i soggetti? «Li leggo tutti, sono curiosa; quando ci penso troppo, vuol dire che non sono convinta. Ma non ho una regola, è come quando entro in un negozio di decorazioni, scelgo istintivamente». Anche il regista conta, «ma non sono una carrierista, non ne sono capace e poi devi fare un sacco di telefonate...». Più in generale, «è difficile trovare buone sceneggiature, per farne un film di due ore senza cadute, con un finale che regga, o un inizio che non sia noioso».
‘Une femme de nostre temps’ arriva a Locarno75 col ritardo pandemico che ha afflitto la cinematografia. «Tutta, non solo quella francese. Trascorsi i primi due mesi di Covid, in Francia, sono stati realizzati tanti film. Ora sono in sala, o sulle piattaforme: non so come la gente possa guardarli tutti, è impossibile». Le piattaforme, appunto: «Ho fatto un film per Amazon, e se da una parte è la prima volta che non devi aspettare il venerdì per sapere se è un flop oppure no (ride, ndr), dall’altra non hai un feedback, e la cosa è un po’ frustrante. Ma alla fine, in qualsiasi modo sia fruibile, per me è un successo. Migliaia di persone in Piazza Grande sono un successo».
Sul cinema di oggi: «Non è cambiato granché, soltanto i tempi: trent’anni fa la lavorazione del film durava dalle dodici alle sedici settimane, venti al massimo. Oggi non ci sono più quei soldi e dunque in sei settimane tutto è finito. E la cosa non dispiace, oggi non potrei nemmeno immaginarmi di girare un film in dodici settimane».
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Mathieu e Vic
Sophie Marceau non è ‘workaholic’, non ha paura di non lavorare, crede nel lavoro, «ma nulla è meglio dell’esperienza». La riflessione ci riporta ai tempi di ‘La Boum’, ‘Il tempo delle mele’ per i francesi: «Avevo 14 anni. Subito dopo il film Francis Huster, attore della Comédie-Française, mi chiamò: ‘Sono Francis Huster!’, disse al telefono con enfasi. E io risposi: ‘Sei un giornalista?... ’». Voleva essere il suo insegnante. «Mi disse: ‘Di ragazze carine e talentuose come te è pieno il mondo. Se vuoi fare questo mestiere devi lavorare, educarti, vedere film, parlare bene. Recitare è un lavoro’. L’ho ascoltato, è quello che ho fatto».
Col timore di aprire porte indesiderate, quelle di chi non è a suo agio con i manifesti generazionali, le chiediamo se sia ‘in pace’ con ‘Il tempo delle mele’. La risposta è: «Sì, assolutamente. Quando alla ‘Cinémathèque’ mi hanno chiesto quale film volessi che fosse proiettato, ho segnalato quello. È vero che ho fatto tanto altro cinema, ma tutto è cominciato da lì. Ho scoperto questo mondo la prima volta mentre lo stavo vivendo, non mi ero creata aspettative, non ero una cinefila ma ero aperta a quel che sarebbe successo. E, di nuovo, ho seguito il mio istinto…».