‘Free Guy’ di Shawn Levy, una produzione ben girata e interpretata ma che non osa e rimane confinata nel cinema commerciale
Ancora spettacolo in Piazza, questa volta senza le problematiche del film d’animazione ‘Belle’ di Mamoru Hosoda proiettato lunedì: ieri sera in ‘Free Guy’ di Shawn Levy, ben conosciuto come regista di ‘Una notte al museo’, non ci sono stati né madri da rimpiangere né bambini oppressi da salvare. Entrambi i film si muovono nel campo delle realtà virtuali da social media e videogiochi e in ‘Free Guy’ siamo attratti dalla possibilità che i personaggi di un videogioco possano pensare indipendentemente. Siamo dalle parti di ‘Truman Show’ e ‘Dark City’, senza la sua crudeltà, almeno apparentemente. “Il tema del film è non limitarsi ad accettare il mondo così come ci viene dato, ma rendersi conto di poterlo plasmare, attraverso un processo di empowerment della persona”, spiega il regista e in realtà il film è una continua ricerca – da parte di chi gioca e di chi è giocato — di avere una propria identità al di là delle costrizioni del lavoro che ti opprime o al di là delle condizioni che il videogioco ti pone. Protagonista del film è Guy (un bravo e misurato Ryan Reynolds), tipico rappresentante del puntuale impiegato americano. Cassiere alla Free City Bank, nulla condiziona la sua semplice vita: al mattino si alza, saluta il suo pesciolino, sceglie la solita camicia azzurrina e scende al bar dove prende il solito caffé. Arriva in banca, saluta il suo amico Buddy (un Lil Rel Howery perfetto come spalla) agente di guardia. Alla solita ora arriva un bandito a rapinare la banca e tutto si svolge in ordine, e così giorno dopo giorno, finché una mattina al bar Guy prova a chiedere un cappuccino: succede un finimondo tanto che alla fine rinuncia; però in banca, durante la rapina, vede passare una ragazza, Molotov Girl, che da qualche giorno incrocia per la città: per seguirla si oppone al rapinatore, gli ruba gli occhiali e scopre che quegli occhiali lo portano in un altro livello di gioco. Succede che tra i programmatori del videogioco ci sia una coppia un po’ liberal composta da Millie (il cui avatar è Molotov Girl, entrambe interpretate dalla brava Jodie Comer) e il suo compagno, uno dei più bravi programmato che produce ‘Free City’, il videogioco con Guy. Succede che Molotov Girl si innamori, riamata, da un Guy ormai indipendente, mentre il produttore del videogioco è deciso a cambiare soggetto e protagonisti, cancellando tutti i personaggi. Guy, con l'aiuto dei giovani programmatori, decide di salvare gli abitanti del videogioco in una battaglia ardua e vincente. Perché tutti i personaggi hanno compreso di non esseri veri, ma di poter vivere una vita che forse è come quella di chi gioca con loro.
Superfluo dire che il film è ben girato, di rilievo la bella fotografia di George Richmond (recentemente in azione in ‘Rocketman’), puntuali le musiche di Christophe Beck (quello di ‘Frozen’ e ‘Ant Man’) e in generale di buon livello il cast. Resta allo spettatore un vuoto che neppure una simpatica battuta contro la diffusione sfrenata delle armi colma. È il vuoto di una sceneggiatura che non prevede il respiro, come in un compitino fatto in fretta per consegnarlo per primo. Siamo nel perfetto stile di un cinema commerciale che – come il produttore dei videogiochi raccontato nel film –, non ha a cuore un valore da dare allo spettatore ma solo un fazzoletto da usare e gettare, è questo il cinema che non ha cuore, che non emoziona, che non canta sullo schermo su cui si adagia lieve per non lasciare segno. Certo ci sarà un film già pronto a riempire quello schermo, è il commercio, è l'industria cinematografica, ma forse Piazza Grande merita più rispetto, non è la televisione su grande schermo in prima serata da guardare insieme, è il Festival di Locarno, per chi ci crede ancora.