Gregory Porter, 'All Rise' (Jazz) - ★★★★★ - Non meno da Grammy di 'Liquid Spirit': più che un album di canzoni, un fascio di luce.
Ringraziamo il dio dei cappelli che ci regala a intervalli regolari la voce di quel Sacramento di Gregory Porter (che è nato a Sacramento, California), già Grammy al miglior album di jazz vocale nel 2014 per ‘Liquid Spirit’, album transitato con tutto l’artista a un Estival Jazz Lugano pre-Covid, lasciando il segno (grazie sig. Marti). Chi avesse schiacciato un mezzo pisolino su ‘Take me to the alley’ (2016) e sul non fondamentale ‘Nat King Cole & Me’ (2017), rimpiangendo lo spirito liquido di quel terzo album finito in classifiche anche non jazz, si ‘arricreerà’ (dal napoletano 'arricrearsi', più o meno “provare soddisfazione”) con 'All Rise' (Blue Note), il Porter più crossover di sempre tornato al quartetto di sempre, Chip Crawford (piano), Jahmai Nichols (basso), Emanuel Harold (batteria), Tivon Pennicott (sax). Dalla splendida ‘Concorde’ in avanti, con un piede e forse anche l’altro nel soul più soul, lo si può ascoltare Marvin Gaye-style in ‘Everything You Touch Is Gold’ ma soprattutto in ‘Faith in Love’, con gli archi della London Symphony Orchestra cui si deve una piccola ma densa percentuale di piacere provato lungo le 13 tracce (15 deluxe) di questo nuovo album. Altro piacere, quando Porter decide di calcare la mano, s’intitola ‘Revival’ (che un po’ sa di Rag’n’Bone Man) e ‘Long List Of Troubles’; ma quando l'artista con la mano sfiora, allora s’intitola ‘Merry Go Round’ e – su tutte e tutto – ‘If Love is Overrated’, ballad che in modo diverso, per contenuti sonori, raccoglie l’eredità di ‘Water Under Bridges’, gioiello dell’album Grammy, diventando ancora più 'classico'. Passione, eleganza, capacità di scrittura: è certo, "we all rise", ci alzeremo in piedi. Anzi, l'abbiamo già fatto.