Trent’anni dopo ‘La televisione col cagnolino’, delizioso e divertentissimo saggio di letteratura comparata scritto da un (anche) critico televisivo
Per stupire mezz’ora basta un libro di storia (così assicurava, dall’aldilà, un matto evocato da De André). Per strappare applausi a un convegno, passando pure per affabulatori, si possono citare certe banalità sulla leggerezza che Calvino, a cui ci si ostina ad attribuirle, non si sognò mai di scrivere. Per accreditarsi in un salotto letterario non c’è niente di meglio che recitare, anche non integralmente, la poesia di Borges ‘I giusti’. Nei dodici versi che la compongono si passano in rassegna alcune semplici, dignitose azioni compiute con amore e dedizione da persone che immaginiamo rette, perbene, persino felici: chi scopre con piacere un’etimologia, il ceramista che premedita un colore e una forma, il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace… Queste persone, che tra loro non si conoscono – conclude Borges – stanno salvando il mondo. Così coscienziose e gentili, le vorremmo amiche e vicine di casa. Di più: vorremmo essere come loro.
Sembrerebbe impossibile individuare un’increspatura nella perfetta serenità di questo idillio. Eppure Beniamino Placido c’è riuscito: ne ‘La televisione col cagnolino’, pubblicato da Il Mulino nel 1993, sostiene che la chiave per comprendere appieno la poesia, portando alla luce ciò che non esplicita, sia nel verso “Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson”. Chiamare in causa il creatore di personaggi sdoppiati, diabolici, dai lati nascosti che contraddicono esistenze apparentemente lisce, insinua il rischio che Mr. Hyde, di solito tenuto a bada dalle convenzioni, dall’educazione e dalle leggi, si manifesti all’improvviso, rivelando l’esistenza del Male. Il pacifico e soddisfatto scopritore di un’etimologia, ad esempio, potrebbe lasciarsi convincere da un demagogo benvestito, dall’aria autorevole e vincitore di regolari e democratiche elezioni, che il popolo confinante è il popolo nemico, da sterminare a tutti i costi. E “chi accarezza un animale addormentato” potrebbe essere la stessa persona che, in circostanze diverse, non si farebbe scrupolo di ammazzare l’animale, o di lasciarlo morire di fame. “Può accadere a qualsiasi romanzo, o sonetto, o poema epico apparentemente perfetto: coeso, compatto, catafratto”, osserva Placido, “di presentare una invisibile lacerazione da qualche parte. Quella lacerazione, quel buco, apre il testo a un diverso, insospettato rapporto con l’universo circostante, con il suo contesto”.
Il limite della televisione, argomenta Placido (che è stato anche critico televisivo) in questo delizioso e divertentissimo saggio di letteratura comparata, ricco di provocazioni, rimandi – come quello a Čechov nel titolo – e originali connessioni tra fenomeni a prima vista incompatibili, risiede nel non saper andare oltre ciò che si vede, come se la realtà si limitasse alla parte visibile delle cose. “E ci lasciamo convincere che non c’è altro da chiedere, non c’è altro da appurare. Paghiamo una pesante tassa indiretta, in termini di conoscenza dell’interiorità – nostra ed altrui – e non ce ne accorgiamo. E invece vogliamo sapere dell’altro. Vogliamo vedere l’altro. Il risvolto, il doppio del reale. Quello che non si vede perché appartiene alla sfera del segreto, del mistero. Quello che non si può raggiungere con la telecamera”. La natura del reale, ci hanno insegnato i filosofi, i miti e le religioni, è infatti doppia, ma “rischiamo di perdere il contatto con una delle dimensioni importanti della realtà, se ci limitiamo alla televisione, se non apriamo di tanto in tanto un romanzo”.
‘La televisione col cagnolino’ merita la riscoperta per varie ragioni. Innanzitutto, per domandarsi se le considerazioni di Placido si possano estendere alle innovazioni tecnologiche degli ultimi trent’anni. Ma, principalmente, per godere della prosa brillante dell’autore, delle sue geniali trovate, del suo atteggiamento aperto, bonario ed antiaccademico nei confronti della cultura e dei lettori, del suo impegno per dimostrare che ogni avventura intellettuale, con buona pace del gendarme ideologico e di quello psicoanalitico, non è altro che una riflessione sull’esistenza umana e su vizi, debolezze e aspirazioni eterne, e può persino aiutare a capire qualcosa della vita. Uno sforzo che Placido compie all’insegna di quella grace under pressure che, per il suo amato Hemingway, era la migliore definizione dello stile e del coraggio.