Tra le più celebri teoriche del cinema del Novecento, è stata ospite al Cabaret Voltaire e al cinema Xenix di Zurigo
È anche grazie a Laura Mulvey se oggi riusciamo a comprendere a fondo e a decostruire i rapporti tra patriarcato e rappresentazione visiva, se siamo diventati più critici, ad esempio, nei confronti di immagini che trasformano la donna in oggetto passivo a uso e consumo dello sguardo maschile. La sua fama ha avuto inizio con un breve articolo, pubblicato nel 1975 sulla rivista Screen, intitolato Visual Pleasure and narrative cinema, una pietra miliare della teoria cinematografica del Novecento. In questo testo la psicoanalisi e la semiotica, unitamente al pensiero critico femminista, diventano strumenti utili per analizzare la produzione cinematografica di massa di allora e le caratteristiche tipiche della rappresentazione del genere femminile al cinema.
Laura Mulvey, nata a Oxford nel 1941, dopo essersi laureata in storia nel 1964 entrò agli albori degli anni Settanta nel movimento femminista inglese. All’epoca questo movimento era concentrato sull’oppressione patriarcale in rapporto soprattutto al corpo femminile. I temi forti erano la sessualità, l’aborto, la violenza di genere. Mulvey, con il suo saggio, contribuì a spostare l’attenzione anche sulla produzione culturale, sulle immagini e la narrazione visiva in particolare. In ‘Piacere visivo e cinema narrativo’, così è stato tradotto l’articolo in italiano, Mulvey si è occupata soprattutto di cinema hollywoodiano che all’epoca, come oggi del resto, dominava il mercato cinematografico mondiale. Secondo Mulvey, che riprendeva soprattutto Jacques Lacan, questo cinema era costruito sostanzialmente a partire da un ‘male gaze’, ovvero da uno sguardo maschile che raffigurava i personaggi femminili come oggetti sessuali atti a soddisfare lo spettatore maschio. Basta fare un giro su YouTube e digitare Laura Mulvey per trovare numerose analisi di film della Hollywood classica in cui è facile osservare come i personaggi maschili siano portatori di uno sguardo attivo, voyeuristico, costruito per favorire l’identificazione degli uomini eterosessuali presenti in sala. Ovviamente ridurre tutta la produzione statunitense classica a ciò è riduttivo – le rappresentazioni eterodosse non mancano e neppure meccanismi di identificazione "alternativi" – ma è indubbio che, anche a livello narrativo, Hollywood prediligesse personaggi maschili volitivi, portati all’azione e portatori di uno sguardo molto spesso "più forte" rispetto a quello femminile. Il cinema classico, secondo Mulvey, era insomma costruito su una forte asimmetria di potere tra uomo e donna. Oggi il termine ‘male gaze’ è diventato d’uso comune nella teoria della rappresentazione e si è trasformato in una chiave di lettura anche per altri ambiti della produzione culturale del passato e del presente.
Nel saggio sopraccitato, Mulvey contrapponeva alla produzione hollywoodiana un cinema d’avanguardia capace di rompere con le strutture patriarcali. La studiosa non si è fermata alla pagina scritta e ha intrapreso, insieme al marito di allora Peter Wollen, una carriera di cineasta sperimentale. Nei suoi film, Mulvey ha cercato di creare un linguaggio cinematografico non sessista attraverso sperimentazioni formali visionarie e ad alto contenuto concettuale.
Mulvey è stata invitata in Svizzera da Volker Pantenburg, direttore del locale Dipartimento di studi cinematografici dell’Università di Zurigo (Seminar für Filmwissenschaft), proprio in qualità di cineasta e curatrice. Al cinema Xenix, lo scorso mercoledì, la Mulvey ha presentato e commentato uno dei film della sua filmografia, ovvero ‘Crystal Gazing’ (1982), un’opera in cui la sperimentazione non preclude la narrazione. Anzi la narrazione diventa essa stessa materia sperimentale. La sala, oltremodo gremita di giovani spettatori e spettatrici, tra cui molti studenti di cinema, ha dimostrato di apprezzare un film pieno di citazioni musicali e cinematografiche, capace di riflettere e far riflettere sulle forme della rappresentazione, sulla finzione e sulla società. Siamo infatti all’inizio dell’era Thatcher e Crystal Gazing mostra segni di inquietudine rispetto al degrado neoliberista in procinto di realizzarsi negli anni immediatamente successivi.
Lo scorso 8 novembre, Laura Mulvey è stata ospite anche del Cabaret Voltaire, dove ha presentato un altro titolo della sua filmografia, ovvero ‘Frida Kahlo & Tina Modotti’ (1983), una testimonianza di una mostra leggendaria del 1982 alla Whitechapel Gallery di Londra, curata sempre dal duo Mulvey-Wollen, che ha fatto conoscere Frida Kahlo e riscoprire Tina Modotti in tutta Europa, due protagoniste iconiche del Rinascimento messicano. Frida Kahlo non ha bisogno di presentazioni. Mulvey la scoprì quasi per caso durante un viaggio in Sudamerica con Wollen, durante una visita alla residenza messicana di Trotzki.
La fotografa di origine friulana Tina Modotti è invece meno conosciuta dal grande pubblico. Nata a Udine nel 1896, Modotti emigrò molto giovane negli Stati Uniti. In seguito, si spostò in Messico dove si dedicò attivamente alla causa rivoluzionaria e conobbe dapprima Diego Rivera e, in seguito, Frida Kahlo. Proprio in Messico e grazie alle sue fotografie messicane, Modotti riuscì a farsi un nome anche a livello internazionale. Nell’arte di entrambe queste donne, Mulvey ritrovò uno sguardo femminile e rivoluzionario capace di ribaltare le forme più abusate della rappresentazione femminile di stampo patriarcale tanto in voga in Occidente.