‘Enzo Jannacci. Vengo anch’io’, a Giubiasco il film di Giorgio Verdelli su quello che per Vecchioni, Paolo Conte e molti altri è stato ‘il più grande’
“Io e te che guardi le mie rughe, io e te che mangi le mie acciughe. Finito, basta, il pezzo è quello lì, perché andare avanti?”. In ‘Enzo Jannacci. Vengo anch’io’, documentario che a Venezia è durato molto di più che in altre sale (10 minuti di standing ovation e un canto di gruppo sulla canzone nel titolo), a dare la migliore definizione di sé è lo stesso Jannacci in uno dei tanti momenti d’archivio del film, citando ‘Parlare con i limoni’, dall’omonimo suo album del 1987. “Finito, basta, il pezzo è quello lì”. Le rughe, le acciughe, nonsense come se piovesse e molti altri (anche più pregni) lampi di genio che portavano al brano completo e che hanno portato Giorgio Verdelli, a nove anni dalla scomparsa del cantautore e chirurgo milanese, a celebrarlo in un album di ricordi popolato di artisti, da Vecchioni a Milano sul tram a Vasco nel suo studio di Bologna, per scoprire – nel caso del secondo – alcune insospettabili affinità elettive tra due rivoluzionari dell’interpretazione, antitetici al belcanto.
«Ho raccontato Jannacci cercando di mettere insieme episodi e testimonianze, ma avrei materiale per farne otto, di puntate» ci racconta Verdelli, autore, regista e produttore cui si devono altri ritratti ugualmente importanti: avevamo incontrato per ‘Ezio Bosso – Le cose che restano’ nel 2021 proprio a Castellinaria, dove torna questa sera alle 20.30 per il ‘suo’ Jannacci, ultimo titolo di una filmografia che include monografie come ‘Pino Daniele. Il tempo resterà’ (2017), ‘Paolo Conte – Via con me’ (2020) e ‘Souvenir d’Italie’ (2022), dove il ritratto è Lelio Luttazzi. «Premetto – ci dice ancora – che dei documentari fatti come regista, insieme a quello su Pino Daniele, ‘Vengo anch’io’ è il più sentito perché, pur essendo io napoletano, ero molto amico di Jannacci e mi sento in buona, buonissima compagnia pensandola su di lui come Roberto Vecchioni e Paolo Conte, quando dicono che è uno degli artisti fondamentali, uno dei più grandi in assoluto».
Consideri Enzo Jannacci un sottovalutato: in cosa, e perché?
È stato così, e mi ha sempre dato fastidio, già quand’era in vita, sebbene parte della sottovalutazione della sua grandezza dipendesse anche da lui. Avendo Enzo svolto assai bene la professione di medico, esercitando fino alla pensione e anche dopo, non ha mai fatto tournée organizzate, o almeno ne ha fatte poche, restando sempre nei 150-200 chilometri di distanza da casa. Diversamente da Gaber, per esempio. Questo lo ha inevitabilmente penalizzato, e così il non avere avuto un ufficio stampa o l’aver cambiato sette, otto case discografiche, e pur avendo una massa imponente di canzoni, un repertorio sterminato.
Hai citato Vecchioni, che nel film dice: ‘Ho sempre considerato Enzo l’unico genio musicale che abbiamo avuto in Italia. Gente grandissima come Guccini o De André è comunque su un cliché più scontato. Enzo, invece, in senso pirandelliano, fa ciò che non t’aspetti mai, nell’umorismo e nel tragico. Sapevi da dove partiva, non sapevi dove volesse arrivare, ma qualcosa dentro ti restava’.
Credo che Jannacci sia un episodio fondamentale della cultura e dello spettacolo milanese per quello che chiamerei il secondo dopoguerra italiano, la Milano che parte dagli anni 50, dal rock and roll ma pure da un’avanguardia di artisti come Lucio Fontana, che frequentava il Derby e prima ancora il Santa Tecla. Cochi Ponzoni, ma questo nel film non c’è, racconta di quando Fontana gli volle regalare un quadro e lui rifiutò perché non amava ‘i tagli’. Poi si rese conto di avere rinunciato a mezzo miliardo di lire.
L’ambiente era questo e Jannacci era l’anello di congiunzione di tutto, tra Adriano Celentano, Paolo Conte, Giorgio Gaber e Fabrizio De André, e in ambiti teatrali Dario Fo, Bisio, Giorgio Faletti, Ale e Franz. Come dice giustamente Diego Abatantuono, se non si capisce che Enzo era uno straordinario musicista e un chirurgo, dunque un diplomato al Conservatorio e un laureato in medicina, non si può capire dove stesse il suo grande talento. Per tutto questo eclettismo, è una figura unica in Italia, dove non siamo avvezzi a celebrare personaggi eclettici: da noi il regista deve fare il regista, il cantautore deve fare il cantautore, Enzo invece spaziava, dando fastidio e portando gli altri a non prenderlo seriamente. Dopo il grande successo di ‘Vengo anch’io’, quando già aveva pubblicato una cosa opposta come ‘Gli zingari’, se ne andò negli Stati Uniti a specializzarsi in chirurgia, anche perché, tra pazienti e colleghi di medicina, in più di uno storcevano il naso.
Il figlio Paolo, nel film, riassume l’essenza del padre: un’alternanza di picchi altissimi e bassissimi dei quali nemmeno si accorgeva, il tutto finalizzato a trovare una propria identità artistica…
È vero, non prestava attenzione a questa alternanza, seguiva una propria linea e procedeva con coerenza. Non a caso una delle ragioni che lo rendeva simile a Vasco, al di là delle canzoni, è che non si è mai preoccupato di piacere alla gente, faceva quello che secondo lui era giusto. Vasco, soprattutto nei primi vent’anni di carriera, si è mosso allo stesso modo, in assoluta controtendenza.
Ci sono almeno un paio di impagabili dietro le quinte nel film, dalle session in studio di ‘Silvano’, con Enzo, Cochi e Renato a completarne il testo, o il duetto con Milva in ‘Per un basin’, una take di prova dove i due ridono e scherzano. A pensarci bene, per copione non scritto e improvvisazione jazzistica, le immagini ufficiali di Jannacci sono sempre state un backstage…
Concordo, Enzo Jannacci il dietro le quinte lo faceva davanti.
Il tuo ricordo personale di Jannacci si può dire sia l’intervista inedita del 2005, che corre spedita lungo tutto il documentario. Ce n’è uno ‘off record’?
L’uomo Jannacci è stato una persona alla quale non era difficile volere bene, anche nei suoi momenti più stralunati. Ricordo di quando un collega autore gli chiese di cantare ‘Vengo anch’io’, o forse era ‘Vincenzina e la fabbrica’, e lui rispose: “Sì, però la canto scalzo”. Di questa mia intervista ricordo quando mi disse “è la prima volta che si capisce quello che dico”, quasi in risposta a un’altra sua frase che nel film si ascolta, “se capite tutto quello che dico avvisatemi, perché significa che sono uscito dal personaggio”.
Una volta conclusa l’intervista, registrata a casa mia a Roma, andammo a mangiare una minestra in un ristorante vicino: parlammo di tutto, di politica, di arte, di Daniele Silvestri, che gli piaceva tanto. Al momento del conto volle pagare lui, cosa che non mi succede mai, e non vi fu verso di fagli cambiare idea: “Ma hai fatto una cosa per me!”, gli feci notare; “Ma io mi sono divertito!”, rispose.
Il siciliano Frassica che tendeva alla comicità milanese, Claudio Bisio, a Giubiasco ieri, che nel film definisce Jannacci “maestro, artista, amico, sempre vero anche quando diventava afono”, e poi Cochi, Elio, un Paolo Conte commosso, Paolo Rossi che “quando sono in teatro lo sento ancora”, Guccini che “farsi telefonare da Jannacci era drammatico, non si capiva niente di quello che diceva”, J-Ax, Boldi, Lundini, Gabbani e tutto l’archivio. Quanta bella gente…
Non mi ha detto di no nessuno, ho avuto, anzi, il problema opposto, sono arrivate adesioni che non sono potute entrare nel film, perché lo stavamo chiudendo. Vasco, in particolare, è stato di una generosità unica, è venuto apposta qualche giorno prima dagli Stati Uniti per registrare, ci ha aperto i suoi uffici di Bologna.
Con Vasco si apre una specie di vaso di Pandora: si scopre che il rocker cantò ‘Vado al massimo’ pensando a ‘Messico e nuvole’, che ‘Siamo solo noi’ è ‘strascicata’ come il parlato di Jannacci, che quel mangiarsi le parole è comune a entrambi, ma si scopre anche che l’influenza era reciproca. Come nei migliori thriller, non sveleremo il finale: non si può non dire, però, di quella lettera di Jannacci a Vasco…
Il figlio Paolo gliel’aveva portata a San Siro, dove io stavo registrando un documentario su di lui per Canale 5. Sapevo di questa cosa, ma in quell’occasione non ho mai pensato d’inserirla. Questa volta, ricordandola a Vasco, lui ha accettato di includerla, chiedendomi però che fossi io a leggerla, lui l’avrebbe solo commentata. Gli ho mostrato dove sarebbe stata collocata, se l’avesse letta lui. “Va bene, registriamola subito”, mi ha detto dopo averla letta. Io gli ho risposto: “Vasco, stiamo già registrando...”.
Keystone
Da destra: Giorgio Verdelli, Paolo Jannacci e Paolo Rossi a Venezia
Alle 11, a Giubiasco, il gran finale di Castellinaria prende il via con il Fantoche Best Kids, selezione di cortometraggi provenienti dal Festival dell’animazione di Baden, protagonisti anche del concorso internazionale Castellincorto in due fasi, alle 13.30 e alle 15.30.
Alle 18, dopo il corto ‘L’odo’ dèt resa’ di Janush Lucchini (CH, 2022), in anteprima ticinese una delle commedie svizzere più attese dell’anno, ‘Bonjour Ticino’, film diretto da Peter Luisi, girato anche tra il Locarnese e la Leventina. La storia: una folle iniziativa sancisce che la lingua ufficiale del nostro Paese sarà una e una soltanto: il francese. Due agenti della Polizia federale vengono incaricati di assicurarsi che il passaggio avvenga come programmato e inviati in Ticino, dove un gruppo di resistenza è pronto a tutto pur di evitare che la Svizzera perda il suo plurilinguismo. Nel cast, insieme a Beat Schlatter e Vincent Kucholl, anche la ticinese Catherine Pagani, all’esordio nel lungometraggio. Sia lei che il regista Peter Luisi saranno presenti a Castellinaria.
Dopo la Cerimonia di premiazione, in programma alle ore 20.30 al Mercato Coperto di Giubiasco, la 36esima edizione di Castellinaria si concluderà in musica: il film su Enzo Jannacci di Giorgio Verdelli e, a seguire, la band bellinzonese Scarp Da Tennis nel Foyer del Mercato Coperto, naturalmente con omaggi a Jannacci (www.castellinaria.ch).