Parafrasando il ‘suo’ Baudelaire, la Fondazione Beyeler di Riehen-Basilea dedica al pittore francese una mostra che risplende di colore
Rifulge in tutta la sua bellezza e sontuosità cromatica la pittura di Henri Matisse (1869-1954) in mostra alla Fondazione Beyeler, grazie a un allestimento misurato e ben scandito che conferisce a dipinti e sculture quello spazio di risonanza che conviene loro, a volte una sola opera su un’intera parete. Il suo titolo Matisse-Invito al viaggio riprende quello di una nota poesia di Charles Baudelaire (1821-1867) tanto cara al pittore da titolare un suo celebre dipinto del 1904 con le tre parole chiave “Lusso, calma e voluttà” con cui il poeta, in forma di ritornello, chiude ognuna delle sue tre strofe.
È l’aspirazione a un vivere in piena consonanza con sé stessi e l’ambiente che ci circonda, l’abbandonarsi (un po’ dandy) al fascino dei luoghi incantati, degli “splendori orientali”, dove “i soli al tramonto/ rivestono i campi,/ i canali e tutta la città,/ di giacinto e di oro”. Più che di un viaggio fisico (e Matisse ne ha fatti molti dalla Francia all’Italia e alla Spagna, dal Nord Africa agli Stati Uniti, dai mari del Sud alla Russia) in realtà si tratta di un viaggio sognato alla ricerca di un approdo sempre inseguito e mai raggiunto, di un’armonia di vita in cui – e qui mi riferisco al pittore allora trentacinquenne ma in difficoltà economiche – egli rispecchia anche un’idea di arte come giusta rispondenza tra le aspettative implicite e i risultati conseguiti: un’arte che sia insomma un “sogno di equilibrio, di purezza e serenità’, come dichiarò l’artista stesso.
Tanto i viaggi quanto l’atelier costituiscono dunque i due poli di una costante interazione nell’attività artistica di Matisse, per esempio con la scoperta dell’arte islamica; ma più che preoccuparsi – com’è un po’ premura della mostra – di far vedere come tali incontri entrino nel corpo della sua pittura con paesaggi africani, tappeti orientali, opere d’arte primitiva o ceramiche da lui collezionate, molto più interessante e affascinante è seguire l’audace viaggio della sua pittura – un viaggio della mente che è sempre anche un miraggio – che si consuma nel silenzio dell’atelier. E la rassegna basilese, in questo senso, traccia davvero un gran bel percorso con opere museali non di rado di primissima scelta. A cominciare dal rapporto che si instaura assai presto tra pittura e scultura testimoniato dai due nudi femminili del 1900 e del 1901 accomunati da una stessa volontà di superamento del descrittivismo naturalistico tardo ottocentesco delle sue prime pitture: per incarnare nella duttilità della creta (e poi del bronzo) l’avvolgente mobilità di un corpo che diventa linea serpentinata o per calare nella solida robustezza di un nudo rudemente sbozzato i tagli di luci e colori di una pittura antinaturalistica che già preannuncia l’‘espressionismo’ di là da venire. Qui davvero si misurano i “viaggi” nell’arte di Matisse: in questo suo spostare di continuo i termini della pittura e della scultura, nel cercare sempre soluzioni formali, temi e soggetti nuovi, senza mai adagiarsi in uno stile di facile riconoscimento.
Niedermann
Davanti a Les acanthes, 1953
L’impressione più forte, una volta giunti nel cuore della mostra, è la dominante del colore: libero, fresco, gioioso, timbrico e non di rado audace per gli anni in cui quei quadri furono fatti, dal 1904 al 1914. Sono gli anni in cui Matisse, passando attraverso Signac, inventa e consuma la rivoluzione ‘fauve’ e i colori sembrano letteralmente esplodere, malgrado la tranquilla disposizione degli oggetti dentro un rasserenante interno. Derivando soprattutto da Gauguin e dai Neoimpressionisti, egli utilizza il colore come strumento autonomo della pittura, indaga e scopre le regole dei rapporti armonici, tonali e ritmici interni alla tela, rifiutando l’imitazione del vero, il chiaroscuro per i volumi o la resa prospettica, perché tutto si gioca dentro una superficie bidimensionale che non vuol più simulare la tridimensionalità; la quale non viene però abbandonata, ma delegata e indagata nel suo ambito più specifico che è quello della scultura. In un pendolo di continue interazioni.
La grande guerra segna poi un tragico momento di svolta. Matisse lascia Parigi e parte per Collioure dove ritrova Juan Gris; comincia allora una intensa riflessione sul cubismo di Picasso, Braque e dello stesso Gris, e nelle sue composizioni i toni si abbassano, il colore si fa più notturno e sordo, le superfici si geometrizzano in forme piatte e spigolose, spesso anche monocromatiche, ai limiti della pura astrazione. Il tutto, comunque, dentro una modernità di accenti e di forme che allora, a Parigi, poteva trovare il pari solo nel cubismo di Picasso e Braque. Poi, andando avanti negli anni, Matisse s’arresta anche: ha rotture, ripensamenti, ritorni, specie negli anni Venti, a una pittura più descrittiva e intimistica, in linea con quel “ritorno all’ordine” che ormai si è diffuso per l’Europa. Ma salta fuori con una zampata finale, a settant’anni, nei ‘papiers découpés’ con cui chiude la rassegna: da lasciare stupefatti. Qui egli disegna con le forbici e arriva alla sintesi ultima della sua ricerca fondendo in una sola opera disegno, colore e rilievo (scultura), dilatando tecniche e superfici, studiando con cura i rapporti tra le forme, i colori e lo spazio che li accoglie, riuscendo a infondere in queste sue ultime opere un grande senso di libertà e innovazione, di serenità e freschezza. Forse, qui più che mai, quel miraggio aveva preso corpo.
Beyeler
Nu bleu I, 1952 - carta su tela