Nelle milanesi Gallerie d'Italia ‘Il ritratto del suo tempo’, un florilegio di qualità pittorica e una serie di temi di riflessione. Fino al primo aprile
La bellissima mostra dedicata a Giovan Battista Moroni, presso la sede milanese delle Gallerie d’Italia, ci propone un florilegio di qualità pittorica e una serie di temi di riflessione. Un primo tema riguarda proprio la qualità della pittura. Oggi, in particolare attraverso gli artisti detti contemporanei, viventi o recenti, ci viene proposto un po’ di tutto; in questo contesto, andare a scuola là dove abbiamo l’opera di un maestro confrontata con quella di altrettali (Moretto, Lotto, Tiziano, Tintoretto) è una gran bella esperienza.
Un secondo tema è stato accennato da Carlo Ginzburg in occasione di una discussione avvenuta a Bologna, presso la Fondazione Zeri, e dedicata al catalogo generale della pittura di Moroni, preparato da Simone Facchinetti, curatore insieme ad Arturo Galansino anche della rassegna milanese. Si tratta del tema della ricezione: l’artista produce per un mercato, per un ambiente ricettivo; talvolta questo può essere ostile e l’artista si trova a produrre in solitudine, in isolamento, in conflitto; talaltra la ricezione può essere incoraggiante. In tutti i casi lo sviluppo delle modalità espressive ne è condizionato. Vi è dunque una relazione tra la ricezione e lo sviluppo stilistico, potremmo dire la poetica dell’artista.
Tra Brescia, Bergamo, Albino, Trento dove egli seguì i lavori del Concilio, Giovanni Battista Moroni agiva in un ambiente sociale in cui si chiedeva agli artisti di promuovere le personalità di più fasce sociali. All’interno di tale terreno d’azione egli ha potuto sviluppare con maestria il genere del ritratto. Abbiamo così una molteplicità di raffigurazioni di persone e di ruoli: chierico, militare, sacerdote, artigiano, poeta, artista, protagonista di circuiti letterari. Il quadro non fornisce quindi una mera mimesi di un soggetto umano. La rappresentazione è innegabilmente sociale, si compone con la postura, talvolta statica, talaltra dinamica, con la foggia degli indumenti, con i neri abitati da luce e ombre e con gli sfavillanti e direi sfarzosi indumenti; è inoltre importante la messa in scena. Insieme a ciò, abbiamo la resa della soggettività, affidata quasi esclusivamente alla traduzione in immagine del volto.
Collezione Gerolamo e Roberta Etro
Giovan Battista Moroni (Albino 1521-1580 circa) Devoto in contemplazione del battesimo di Cristo 1555 circa Olio su tela, 104,5 x 112,5 cm
In ‘Moroni (1521-1580). Il ritratto del suo tempo’ ci sono anche altre sezioni, dedicate per esempio alle rappresentazioni religiose. Nella sezione definita della orazione mentale il ritratto di una o più persone in atteggiamento devozionale interagisce con la rappresentazione di un episodio religioso. Il genere del ritratto è trattato in un impianto scenografico che si articola in termini spaziali e concettuali, proponendoci una mise en abyme.
Quando citiamo l’espressione di mise en abyme (pure evocata da Carlo Ginzburg nella conversazione di Bologna) non facciamo riferimento a una immagine che contiene una copia di se stessa ma a una storia che contiene un’altra storia: la persona effigiata è rappresentata in un atto devozionale rispetto a una realtà che a sua volta è raccontata in una storia figurata. Abbiamo, per esempio, una figura devota nell’atto di pregare; essa interagisce con la rappresentazione della scena della crocifissione, o del battesimo di Cristo. Il quadro ci racconta la devozione con una qualità pittorica specificamente concentrata nel dipingere la personalità del devoto, attraverso il suo volto e le sue mani; ci racconta anche l’argomento della stessa, con un linguaggio espressivo diverso, che stacca dalla raffigurazione del devoto. L’efficacia dell’impianto narrativo deriva anche dal contrasto tra le tecniche pittoriche dei due piani. Utilizziamo l’espressione mise en abyme a proposito di questa modalità di disposizione delle componenti nello spazio, cioè di questa peculiare scenografia.
Nei quadri a impianto devozionale tutto ciò appare in forte evidenza ma possiamo collegarlo alle scelte di ambientazione che troviamo nei ritratti. Esse sono varie, talvolta si ripetono e gli allestitori della mostra hanno voluto evidenziare i casi di produzione seriale delle ambientazioni, come nel caso del Ritratto di ecclesiastico e del Ritratto di un dotto, entrambi del 1557. Il parapetto posticcio fa da appoggio spaziale alla figura ritratta e da appoggio percettivo al nostro sguardo e sul parapetto abbiamo un ulteriore filtro di mediazione tra noi e la personalità ritratta: un libro appoggiato sul piano. Gli esempi sono vari e consentono di parlare di una produzione seriale da parte di Giovanni Battista Moroni; il volto e la testa appaiono come giustapposti sul corpo e talvolta, come nel caso de Il poeta sconosciuto del 1560, la forma della testa non si colloca in modo armonico sulle spalle. Adolfo Venturi ha voluto paragonare il metodo scenografico di Moroni a quello del ritrattista fotografo; sicuramente tale metodo ci consegna una pluralità di piani narrativi: la storia raccontata attraverso il volto interagisce con la storia raccontata dal corpo e con quella presentata dalla messa in scena, sia essa una poltrona o un ambiente anticheggiante o un fondale minimalista. Anche in questo caso possiamo parlare di una mise en abyme.
In un impianto metodologico così sofisticato la storia delle persone ritratte è rappresentata con l’impegno di renderne le caratteristiche soggettive: ecco dunque alcuni volti corrucciati, altri spavaldi, altri in sofferenza o assorti. Gli occhi hanno un ruolo peculiare e viene affidata loro una funzione interattiva, talvolta con la scena della devozione, talaltra con noi stessi che siamo chiamati a farci una impressione della personalità del soggetto rappresentato. Le scelte cromatiche non sono univoche: a volte prevalgono toni verdastri, emaciati; in altri casi il rosso e i toni vivaci vogliono conferire vitalità se non vitalismo alla o al protagonista.
La mostra poi ci propone una serie di confronti attraverso i quali noi possiamo vedere le divergenze, nettissime nel caso di Moretto, di Tintoretto o di Veronese, e le promiscuità nel caso di Tiziano Vecellio e di Lorenzo Lotto, maestri con i quali il confronto è più ricco e articolato: vediamo differenze che potremmo definire ideologiche (i concetti di realismo e di vero meriterebbero una adeguata riflessione) e anche di magistero mescolarsi con scelte e soprattutto con risultati pittorici condivisi.