La storia della canzone italiana ha un prima e un dopo, un AC e un DC, da intendersi non nell’accezione elettrotecnica e nemmeno in quella rock-australiana, ma in quella di datazione storica. La letteratura musicale, in Italia, si divide in periodo pre-pezzaliano e post-pezzaliano, da quando, cioè, Massimo Pezzali detto Max – cantautore pavese classe ’67, appassionato di Harley-Davidson, persona umile e dai modi cortesi – ha rivoluzionato l’uso dell’accento nei testi della canzone popolare. Fatta eccezione per ‘Hanno ucciso l’Uomo Ragno’, brano pulp/rock meritevole di analisi sociologica a sé, ‘Come mai’ è ancora oggi il brano più rappresentativo del cantautore lombardo, ballad sulle note della quale il giovane uomo degli anni 90 (“seduto in una stanza”) si prodigava in promesse a breve termine, ma anche per l’eternità (“pregando per un sì”).
Non sarà, tuttavia, ‘Come mai’ l’oggetto della nostra analisi, in quanto lessicalmente corretta, grammaticalmente sobria e ossequiosa delle regole di base. Ci soffermeremo, invece, su ‘Come deve andare’, ritratto riuscito di un microcosmo giovanile di attuali quarantenni/ quarantacinquenni, portatore di un testo gravitante, come altri episodi musicali dello stesso autore, intorno al mondo dei motori. Elemento simbolico dell’intero racconto è un esistenziale motorino Peugeot che affronta una salita, un mezzo di trasporto che tanto ricorda un più noto passeggino esistenzialista che affronta una discesa (un dualismo a quattro, Pezzali/Peugeot, Fantozzi/Ejzenštejn). ‘Come deve andare’ è brano che porta segni tangibili della revisione pezzaliana applicata alla canzone melodica. Lo spostamento degli accenti del Pezzali – che per la legge del contrappasso da adesso in poi chiameremo Pèzzali, cognome che si potrebbe intendere anche come verbo (l’esortativo di “pezzare”, una sorta di seconda persona singolare) – nella canzone ‘Come deve andare’ è estremo e radicale: ne sono testimonianza alcuni neologismi come “Eranolè”, “Eceranò” (proprio in apertura di strofe) e alcune voci verbali accentate in modo inedito (“diconò”, “guardavanò”, “chiamanò”, “passanò”). Ad attirare l’attenzione, però, sono alcuni azzardi quali l’“orgogliò ferito” della seconda strofa (“orgogliò”, quasi un passato remoto di “orgoglio”, terza persona singolare), e soprattutto – verso la fine – l’espressione “arrivéro in vetta”: ebbene sì, “arrivéro”, una libera interpretazione del verbo “arrivare”, un rimando a identità di fantasia, al nome di un mai esistito ciclista messicano, tale Josè Manuel Arrivéro, primo classificato ad un Gran Premio della Montagna di un non specificato Giro d’Italia (anch’esso mai esistito).
Non tutti possono permettersi di tagliare una tela col coltellino e farsi chiamare Maestro. E forse non tutti possono permettersi di spostare accenti con lucido calcolo, o cosmica casualità. Così come molti scettici (o agnostici) sostengono che uno squarcio in mezzo a una tela sia niente più che uno squarcio in mezzo a una tela, allo stesso modo c’è chi sostiene che l’accento del Pèzzali non sia cifra stilistica, ma biegià co escamotage per infilare a tutti i costi il testo nella musica e farci stare anche quello che non ci deve stare. In effetti, sono in tanti a voler vedere nelle abitudini del Pèzzali un invito a singolar tenzone indifferentemente teso a un Mogol di turno, a un De André di turno, un Paoli di turno, un Lennon & un McCartney, entrambi di turno; in molti sostengono che la metrica pezzaliana non sia destrutturazione consapevole, ma atto provocatorio bello e buono destinato all’establishment; in molti sostengono che non si tratti di tecnica compositiva, bensì di esercizio di enigmistica. Detto questo – e abbiamo citato soltanto alcune delle scuole di pensiero –, coloro i quali volessero riconoscere al Pèzzali capacità autoriali non legate alla musica, bensì alla compilazione del cruciverba, ebbene, si sentano liberi di pensarla come pare loro. Vero è che il Pèzzali che sposta gli accenti dove gli pare è riconoscibile per essere “colui che sposta gli accenti”, mantenendo una certa esclusività (mista a una certa impunità) dovuta al fatto che nessuno, prima di lui, aveva osato fare altrettanto (è bene ricordarlo, al di là delle conclusioni che andremo a trarre in seguito, gli accenti stavano molto meglio dov’erano sempre stati).
Così come nessuno si azzarderebbe mai ad utilizzare il verbo “arrivéro” in una composizione (un po’ per pudore, e un po’ perché verrebbe tacciato di scarsa originalità), allo stesso modo – coltello alla mano – nessun pittore odierno trarrebbe alcuna nuova popolarità dall’accoltellare una tela e professarsi “innovatore” o ancor di più “genio” della pittura, a meno che non decidesse di affondare la sua lama su di un dipinto molto noto (una volta eluso il servizio di sorveglianza del museo). Inutile addentrarsi nelle conseguenze derivanti dall’apporre uno sfregio sulla Gioconda, o sul Cristo Morto del Mantegna (pur in prossimità del costato già ferito), o in una a caso delle ferite del San Sebastiano di Giovanni Antonio Bazzi detto “il Sodoma”. In quanto primo sperimentatore della tecnica dell’accento “alla cazzo” (si rende necessario l’epiteto, ma con il solo scopo di dare forza alla cosmica casualità pezzaliana), il Pèzzali ne è depositario unico e unico autorizzato (e perdonato).
Capiamo che il paragone tra il Fontana lanciatore di coltelli e il Pèzzali lanciatore di accenti farà inorridire i galleristi, così come vale anche e soprattutto il “ma chi sei tu per giudicare il Pèzzali?”. In ogni caso, si provi a superare lo shock da accento e si scoprirà quanto la composizione ‘Come deve andare’ – la storia di un vecchio motorino Peugeot che arranca, superato da un Fifty nero Malaguti, all’epoca dell’ambientazione dei fatti di rango più elevato dell’omologo francese – sia un’apprezzabile canzone sulla fine dell’innocenza e sulle assunzioni di responsabilità. I due mezzi a confronto sono una bella metafora del dualismo ricchi e poveri (qui intesi come status sociale e non come quartetto vocale, poi terzetto) che non è mai denuncia di classe fine a sé stessa, ma pungolo a costruirsi un domani all’altezza. Se proprio non gli sarà consentito un futuro da Malaguti – meglio sarebbe da Ducati, meglio ancora da Bmw –, l’autore si augura di salire quel pendio anche a cavallo di un Peugeot, ma in modo dignitoso e senza scorciatoie. E se pure proprio a queste scorciatoie sono legate le rime che per la delicatezza dell’argomento, così sentito al tempo, invece che drammaticità chiamano sorriso (“se ne andò il Tempo delle Mele e arrivò il tempo delle pere”), c’è anche spazio per un po’ di poesia, come nel garbato modo di definire l’Aids (“le quatto letterine magiche”) e la generale successione di immagini assai evocative per quella fascia d’età maschile citata (quaranta/quarantacinque), depositaria di un romanticismo più tardi polverizzato dal girlpower, artefice di un ridimensionamento della figura maschile, a dire il vero un tantino sopravvalutata nei secoli. Può piacere ancor di più, ‘Come deve andare’, se si pensa che a cantarla è uno che (come direbbe lui) “non se la tira” per niente. Ne è testimone il Pèzzali sanremese del 2011, in gara con il brano ‘Il mio secondo tempo’, nel quale spiccava il verbo “succhiavàno” (nota pubblica per il correttore di bozze: “Esatto, proprio con la n di Napoli”). In quel suo essere visibilmente sovrappeso, complice pure uno smoking allacciato in pancia, il Pèzzali ci ha consegnato una versione di sé totalmente affrancata dalla schiavitù dell’idolo del Pop, tutto crusca, diuretici e minestre di farro (si guardi al più recente Mick Jagger, anziano, tremebondo e scheletrico, che sembra uscito da un film di George A. Romero).
Il Pèzzali più recente – in verità sin troppo longilineo – ha da poco pubblicato ‘Astronave Max’, album tutto nuovo. Tra i brani di punta spicca – introdotto da un nonsoché di Level 42 – ‘Sopravviverai’, in cui gli accenti si collocano sempre con la medesima cosmica casualità, e cioè un po’ dove gli pare (dalla doppietta “nessunò controllerà” ai quadrisillabi “pérchecosi” e “pérosaro”, fino agli asimmetrici “prendére sonno”, “quàlcosa che” e “vérra settembre”). Anche tra i nuovi riferimenti motociclistici della traccia numero due – ‘La prima in basso’ (la prima è intesa come marcia, e “tutte le altre su”, anch’esse intese come marce) – abbonda una ricollocazione dell’accento sui verbi più disparati (“capità”, “giràno”, “devì”). La stessa cosa accade in ‘Venerdì’ (ce lo si aspetterebbe “Venérdi”, oppure “Vénerdi”, e invece è come da vocabolario), brano nel quale il futuro del verbo “fare”, terza persona singolare, diventa “fàra”, una sorta di femminile di faro (sostantivo che nessun compilatore della Grammatica italiana, d’altra parte, ha mai dotato di un femminile, almeno sino al brano del Pèzzali).
“In quest’epoca di pazzi” (come direbbe il Battiato, e non solo per colpa degli “idioti dell’orrore”), i testi del Pèzzali mantengono una certa purezza di fondo, elemento che può servire da trampolino per tuffarsi oltre lo sconcerto provocato da sillabe ed accenti, a partire da ‘Sei un mito’ (e quel trionfo di tronche come “simpaticà”, “prenderè”, “favolè”, “irraggiungibilè”) sino ai giorni nostri. Da quando la musica “ci arriva” oppure “non ci arriva” abbiamo provato a rivalutare la storia di un cantautore che non ci arrivava per via degli accenti. Abbiamo provato a guardare il Pèzzali al di là degli accenti così come si guarda Roma al di là del traffico, il calcio al di là di Luther Blissett, il concetto di musicalità al di là di Carla Bruni, quello di recitazione al di là di Monica Bellucci, e il canto al di là di Romina Power (in questo specifico caso, “al di là” è da intendersi come “morte del canto”). Se nei suddetti casi siamo riusciti a rivalutare soltanto Roma, ci sentiamo di dire che oltre l’orizzonte tempestoso delle sue licenze poetiche e dei suoi poetici accrocchi, al di là di questo kamasutra di accenti che si accoppiano in maniera quasi incestuosa, in questa natura puzzlelistica del Pèzzali – che ora, una volta accolto e riconosciuto nella sua specificità, torneremo finalmente a chiamare Pezzali (o Pezzàli) – si può scoprire la poetica un tantino originale, ma onesta, di chi ancora canta la vita quotidiana con educazione e in modo comprensibile. La semplicità del Pezzali odierno è la stessa di quel Peugeot che arrancava in salita, e che ora può guardare giù. Come sostenuto dal Fossati, uno che l’italiano assai bene lo ha scritto, interpretato e fatto interpretare (quando in veste di autore per altri), in fondo “è tutta musica leggera, ma la dobbiamo cantare”.