Narrare spaccati di vita, fuori da tempo e spazio, cristallizzando il filo narrativo a un’esperienza comune, dove la relazione fra uomo e ambiente è il focus del fotografo ticinese Alfio Tommasini.
Tre inverni. Ventisei cantoni. Diecimila chilometri percorsi in tutta la Svizzera. Contadini, mucche da latte, fattorie, industrie, macchine, scorci di paesaggio. «Partivo a notte fonda, per arrivare nelle aziende agricole entro le cinque e assistere al primo lavoro dei contadini: la mungitura», inizia Alfio.
Alfio Tommasini, originario di Lodano, è fotografo freelance e cofondatore, nel 2014, del Verzasca Foto Festival. Ci ritroviamo a casa sua, sul versante dei Monti di Metri che ancora si apre a Piano di Magadino, delta locarnese e Verbano, prima di essere inghiottiti dal verde dei ripidi pendii verzaschesi. Torniamo quindi al motivo del nostro incontro: «Questo è uno di quei progetti che fatico a descrivere, forse perché il mio desiderio è che queste immagini trasmettano un’atmosfera più che spiegare...», ammette quando gli chiedo di parlarmi di “Via Lactea”, progetto che racconta la produzione del latte in Svizzera, esposto a Pasquart Prix Photoforum 2017 (Bienne) e che verrà allestito nell’Azienda agricola Croce (Campo Blenio), dal 29 dicembre 2017 al 31 gennaio 2018, vernice venerdì 29, alle 18.
Ineffabile, si diceva, ma accompagnato dal crepitio dei ciocchi di legno nella stufa, Alfio dà voce al racconto sull’oro bianco svizzero e su tutto ciò che gli gravita attorno.
Sembra un po’ un cliché, permettimelo…
Infatti lo è, desideravo raccontare una storia ambientata nel nostro Paese (pensata per un libro), attraverso un prodotto simbolo e stereotipato; in parte decontestualizzandolo e reinterpretandolo attraverso la mia visione. La sfida è stata trovare una poetica personale per parlare di un prodotto esaurito in immagini e discorsi sempre molto simili, vedi dibattiti su benefici, prezzi... Non volevo fare un reportage con affermazioni propagandistiche, ma neanche dimenticare che la sua produzione è legata alla nostra cultura e alla trasformazione del territorio. La mia storia è ambientata in un luogo dove l’inverno sembra infinito, dove vivono persone che si nutrono di latte per vivere e sopravvivere. L’alimentazione dei nostri nonni aveva nel latte e nei suoi prodotti una delle primarie fonti di sostentamento. Per i protagonisti di questa storia questo discorso è ancora attuale.
Perché hai scelto il latte?
Per due ragioni. La prima è una semplice constatazione personale. Quando arriva l’inverno e diminuiscono frutta, verdure e ore di sole, ho notato che nella mia dispensa aumentano notevolmente i prodotti latticini, forse per proteggermi dal freddo e farmi la pelle più spessa. La seconda ragione, filo rosso anche della mia ricerca fotografica, è l’interesse per la relazione che l’essere umano intesse con territorio e animali. In un contesto contemporaneo, volevo scoprire cosa sta dietro al cartone di latte, anche in ricordo delle origini contadine della mia famiglia, che a differenza mia avevano un contatto diretto con i prodotti che consumavano.
Osservandoli, ho avuto l’impressione che questi scatti siano avvolti da un’aura di fiaba (mi passi il termine?), l’ambientazione è avvolta da un alone suggestivo che asciuga tempo e spazio, con una composizione pulita e insieme drammatica...
Buona parte delle fotografie ha un’ambientazione notturna o crepuscolare, perché il momento della prima mungitura è al mattino presto. La si può vedere come una sorta di fiaba, dove però non mancano momenti di tensione e suspense. Ho cercato di non avere elementi che ancorassero troppo lo scatto al qui e adesso, lasciandolo indefinito. Non volevo fare un reportage giornalistico, bensì dare piena libertà di lettura e interpretazione soggettiva all’osservatore.
Poc’anzi, hai accennato alla tua ricerca fotografica. Che cosa ci racconti del tuo percorso?
Sono nato e cresciuto a Lodano in Vallemaggia, dopo la formazione scolastica, sentivo l’impulso di viaggiare (tuttora lo faccio): volevo scoprire nuove terre e culture. Da sempre attratto dall’universo ispanofono, a vent’anni sono partito per Salamanca e Siviglia, dove ho imparato lo spagnolo. Poi sono partito per il Centro America, volevo partecipare a progetti di volontariato – ambientale, sociale e umanitario – e ho vissuto un anno e mezzo in Messico e ancora in Costa Rica e Panamà. In Messico, lavoravo in piccole comunità rurali: è stato allora che ho sentito l’impulso di voler raccontare storie attraverso la fotografia, la passione per questo medium l’avevo già e nei miei viaggi fotografavo ciò che incontravo, completando i miei diari. La fotografia mi ha spinto verso le persone, a conoscerle… scoprendo che il tema che più mi muove è la relazione fra le persone e il territorio che abitano, tutte le implicazioni di questo rapporto. La fotografia mi ha aiutato a conoscere l’altro, con la sua cultura e il suo punto di vista. Mi ha aperto lo sguardo. Ho così deciso di studiare e praticare la fotografia. Mi sono trasferito a Madrid (dove ho vissuto per cinque anni) per un master in fotografia all’Efti (Centro Internacional de Fotografia y Cine).
Dalle città d’Europa al Centro e Sud America, perché tornare in Ticino?
Vivere in una grande città e in luoghi al di là dell’oceano ha soprattutto sfamato il bisogno di conoscere ed è stato molto importante per aprirmi. Però mi sono sempre sentito molto legato alle mie terre e quando vivevo in città, sognavo spesso di scendere lungo il fiume attorniato da montagne verdissime. Amo tuttora viaggiare, partire, però alla fine torno sempre vicino ai miei luoghi, strettamente connessi alla natura… sento il bisogno di vivere vicino al bosco.
http://www.alfiotommasini.com/