Nel film “La Grande Bellezza”, Antonello Venditti non ha bisogno di recitare. Se ne sta seduto al tavolo di un ristorante nei panni di Antonello Venditti. Il cantautore, che sta a Roma come la fontana sta a Piazza Navona (o viceversa), salirà domani a Castelgrande (www.ticketcorner.ch, inizio ore 20.30), portando con sé la giusta provvista di nuovo (i brani dall’ultimo album “Tortuga”, 2015) e antico (parte della storia del songwriting italiano). L’abbiamo incontrato per avere notizie di prima mano.
Dai castelli romani a quelli svizzeri, di bellezza in bellezza...
Visto che non ero ancora stato in Svizzera con “Tortuga in Paradiso Tour”, lo faccio ora. Sarà un concerto variabile, con molti innesti, perché parallelamente sto portando avanti un unplugged e il panorama delle canzoni si è ampliato. Siamo in grado di cambiare la scaletta in qualsiasi momento. Il ceppo, comunque, è quello di “Tortuga”.
A proposito di bellezza: com’è vincere un Oscar nei panni di sé stessi?
Mi fa piacere di essere parte delle visioni di Sorrentino, e sono contento di continuare a portargli fortuna. Nella “Grande Bellezza” c’era “Forever”, e in “The Young Pope” c’era “Non ci sono anime”, entrambe dall’album “Unica”. È un’occasione importante, attraverso il cinema di Sorrentino anche la musica italiana va nel mondo. Forse mi ha colpito di più “The Young Pope”, perché nella “Grande Bellezza” c’ero fisicamente. E invece, la sola canzone senza di me al termine di una puntata della serie tv è stata struggente.
Il verso “Quanto sei bella Roma”, oggi, vale ancora?
Al di là dei problemi che hanno tutte le grandi città del mondo, Roma ha un’anima che batte tutte le sue grandi bruttezze. È una cosa che percepisci. Tu arrivi a Roma e dici “sono a Roma”, è una cosa che ti pervade. Il fatto che a Roma non funzionino delle cose è quasi parte del folklore, è normale. Quando i problemi sono seri, però, ti accorgi che non è sufficiente la bellezza architettonica, e avere i turisti felici. I turisti sono i beneficiari della Grande Bellezza; i romani, invece, i beneficiari della Grande Bruttezza, l’inefficienza dei servizi.
La mia intervista ideale sarebbe quella di chiederti, per ogni canzone che hai scritto, come-dove-quando-perché. Ne scelgo una a caso: “Notte prima degli esami”.
È la seconda canzone che scrissi al mio ritorno a Roma, nella casa che mi trovò Lucio Dalla a Trastevere. Era ottobre, forse novembre del 1983. Installai lì il mio primo pianoforte. Dopo avere scritto “Grazie Roma”, mi misi al piano con lo stesso entusiasmo di chi ritrova i suoi posti, e vive una seconda adolescenza. La canzone è nata rapidamente, senza interruzioni. Non ci avrò messo la sua durata, ma quasi.
Sapevi già che sarebbe diventato il manifesto di tutti gli studenti?
Sinceramente non mi ero accorto della sua complessità, di come ogni singola strofa fosse un piccolo film. Ancora oggi è difficile capirla per me. Fu una grande sorpresa. Canto della mia maturità, ma ognuno ne reclama la validità, ogni studente, chiunque debba intraprendere una sfida, un concorso, un esame la fa sua, come fatto scaramantico, come un rito. La cosa mi rende felicissimo.
Per finire. Sono passati 45 anni da “Theorius Campus”. Come sta la schiena dell’uomo con “un pianoforte sulla spalla”?
La schiena è sempre dritta. Sono stato talmente abituato a sopportare pesi che il mondo che stiamo subendo oggi mi sembra leggero rispetto ad allora. Vivo la vita come se fosse il primo giorno. C’è chi dice “vivo questo giorno come fosse l’ultimo”. Io dico che lo vivo come fosse il primo. Mi sbalordisco, sono felice, mi sorprendo. Tendenzialmente, sono felice di vivere.