Alex Uhlmann è uno dei cantanti del ristabilito collettivo Planet Funk, in concerto mercoledì 7 giugno in Piazza Manzoni a Lugano per i 20 anni di Tio (festa aperta a tutti). Alex è uno dei tre, perché il nuovo corso della band (album pronto, 6 anni dopo “The Great Shake”) vede al microfono anche Dan Black e Sally Doherty, insieme agli storici Alex Neri, Marco Baroni, Domenico “GG” Canu, Sergio Della Monica e al batterista Luca Capasso. Dei Planet Funk parliamo con Uhlmann, la cui pronuncia è un collettivo a sé, un gradevolissimo crocevia di lingue, specchio di una formazione aperta...
Sei di queste parti, ma non italiano, malgrado lo parli perfettamente…
Sono lussemburghese, di genitori tedeschi. Ho vissuto a Londra per 18 anni, poi a Bologna, Parigi, Berlino, e adesso Milano. In realtà d’italiano non ho niente, ma ho sempre avuto amici, colleghi e fidanzate italiani.
Siete una band ‘open source’, gente pacifica che viene e che va…
Sì, senza preclusione, è il significato del collettivo. Non siamo mai stati una band tradizionale, ma l’unione di quattro produttori con diversi cantanti, anche autori. Lo chiamerei laboratorio. È atipico, lo so, forse la gente ha bisogno di identificarsi con una faccia, ma credo sia anche il segreto per restare attuali.
In tempi d’individualismo, come si contengono gli ego di 3 solisti?
Noi diciamo che l’ego resta fuori dalla porta. In questo tour, tra me, Sally e Dan c’è un’intesa molto dinamica. Siamo parte di un percorso, e possiamo ripercorrere ognuno la storia dell’altro. Penso che sia bello anche per i fondatori averci tutti sul palco.
Questione di maturità?
Sì, e apertura mentale. Forse aiuta non avere 20 anni, e avere tutti una propria carriera solista. Però l’intesa c’è sempre stata, e anche i piccoli conflitti aiutano a mantenere alta la qualità.
Rock elettronico, alternative dance, alternative rock. In una parola?
Dico sempre che il vero motivo del successo è avere uno stile. Ascolti Jamiroquai, Phoenix, e capisci subito che sono Jamiroquai, Phoenix. Planet Funk hanno un sound Planet Funk, stop. E poi c’è questa melancolia positiva, che a me evoca immagini…
I fondatori hanno dichiarato di avere Vasco e Battisti nel sangue. C’entra la melodia italiana?
Sì, c’è anche quella. Ma c’è anche un fattore che di solito spiego parlando dei Coldplay. In Inghilterra si fa fatica a parlare di sentimenti. Non è che vai al pub con un inglese e gli dici “sai, a volte soffro di insicurezza…”. Coldplay, invece, cantano anche di sentimenti, cosa che fa di loro il gruppo più odiato e più amato in Inghilterra. Gli italiani non hanno paura di parlare di sentimenti. Planet Funk, a me, sembrano il migliore compromesso di questi contenuti.
Avete chiuso il Concerto del Primo Maggio. Com’è quel palco?
Ci vuole esperienza per far passare tutto in 3 canzoni, musica, emozioni, a chi non è lì solo per te. Di Roma ricordo l’attenzione alla sicurezza, cosa che noto ovunque nel mondo. Controlli, forze dell’ordine. In passato non era così.
Anche l’intrattenitore ha paura?
A volte ci penso, sono sincero. Il concerto è una cosa sacra, reale, onesta. L’artista è indifeso, si mette a nudo davanti alla gente; e la gente è lì senza difese, per emozionarsi. La relazione è profondissima. La risposta è quella di andare avanti, di suonare, anche di più.
Rifiuti tecnologici nel video di “Stop me”, alienazione in “Too much tv”, “We-people” per Save the children. Non siete puro intrattenimento…
No, la musica deve avere anche la forza di far pensare. Se proprio uno non se la sente di ribellarsi, almeno dia un messaggio. Ok, si fa musica per emozionare, ma non può finire lì.
Per finire. Avete scalzato “We are the champions” dagli stadi di calcio, rugby, football australiano. Come te lo spieghi?
A Potenza qualche giorno fa, la gente ha cantato “Chase the sun” per 20 minuti di fila dopo il concerto. L’ho già detto, i Planet Funk fanno musica ‘cinematografica’. Quello che posso dire è che non c’è niente di deciso a tavolino.