Culture

Una svizzera in Europa

Fra venti avversi
27 febbraio 2016
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Isole, illusioni e allusioni / 2

Da Agno a Bruxelles, i rapporti tra Confederazione e Unione europea raccontati da un’europarlamentare ticinese. Elly Schlein, una delle più giovani deputate di Bruxelles, ci spiega perché l’Europa non è soltanto un luogo ma anche un’idea; che riguarda pure il nostro Paese.

Quando nei primi anni del secolo scorso, suo nonno, tra i migranti che partivano dall’Europa in cerca di un futuro migliore, sbarcò a Ellis Island, un funzionario dell’isola trasformò il suo cognome da Schleyen in Schlein. Elly, classe 1985, cresciuta ad Agno con in tasca tre passaporti (svizzero, italiano e americano), dopo la maturità ottenuta con la media del 6 al liceo di Lugano, si è trasferita a Bologna, dove oltre a laurearsi in giurisprudenza e a coltivare la sua passione per il cinema, ha iniziato a impegnarsi in politica, prima nelle associazioni studentesche e poi, con il movimento OccupyPD. Una militanza che l’ha portata, dopo le primarie a fianco di Pippo Civati, prima alla Direzione nazionale del Partito democratico e, pochi mesi dopo, nel maggio del 2014, ad essere eletta al parlamento europeo, con 55mila preferenze. Anche se lo scorso anno, in disaccordo con le strategie delle “larghe intese” e con la linea di governo del premier Matteo Renzi, ha lasciato il Pd, oggi è ancora membro del Gruppo parlamentare socialista e democratico. Una vita densa, tra Strasburgo, Bologna e la capitale belga, che talvolta le lascia spazio per una pausa caffè alla Taverne du Passage, storico bistrot del quartiere dell’Ilot Sacré a Bruxelles, che ha spesso ospitato Alexandre Dumas. Scrittore e drammaturgo francese che nel suo ‘Conte di Montecristo’ si immaginò la felicità su isole incantate che dovevano essere conquistate.

Onorevole Schlein, anche l’Unione europea vede la Svizzera come un’isola felice da conquistare?
A me piace pensare che i rapporti con i vicini siano una parte di ciò che ci definisce e questo vale anche per il rapporto tra Svizzera ed Europa. Non vedo alcun atteggiamento da “conquistadores” da parte dell’Unione e credo al contempo che la Confederazione non sia esattamente un’isola. È perfettamente integrata al mercato unico dell’Ue con rapporti economici e commerciali fortissimi; basti pensare che l’ottanta per cento delle importazioni e il sessanta per cento delle esportazioni svizzere avvengono con l’Europa. Integrazione che si estende anche all’ambito culturale e sociale.

Quali sono i principali problemi nella relazione tra Svizzera ed Europa?
Fino ad ora la Svizzera ha potuto approfittare molto dei rapporti con l’Ue. Grazie agli accordi sugli ostacoli tecnici al commercio presenti nel bilaterale I in vigore dal 2002, la Confederazione ha beneficiato di un risparmio netto di centinaia di milioni all’anno per le sue imprese. Se pensiamo poi al bilaterale sugli appalti, la Svizzera ha avuto accesso a un mercato che vale 1’500 miliardi di euro all’anno, per non parlare del sistema dei trasporti, dell’agricoltura e della ricerca. La possibilità di fare parte dell’Unione europea è sempre stata un tasto molto dolente nel sentire comune degli svizzeri. Se è vero che il nove febbraio 2014 c’è stato un voto che rischia di rimettere in discussione i rapporti tra Unione europea e Confederazione, è altrettanto vero che sugli accordi bilaterali il popolo si è espresso favorevolmente ben sette volte. Ora si dovrà capire se l’impasse venutasi a creare con il referendum potrà essere affrontata da un punto di vista normativo. Se i bilaterali dovessero cadere, lo scenario sarebbe drammatico: ogni stato dovrebbe rinegoziare singolarmente tutte le questioni, persino il passaggio aereo; ci sarebbero complicazioni insormontabili. Io mi auguro che si trovi una soluzione ragionata. Secondo me sbaglia chi in Svizzera vede l’atteggiamento dell’Unione europea come una ritorsione. Semplicemente l’Ue non può mettere in discussione uno dei quattro pilastri fondamentali sui quali si basa: la libertà di circolazione. Credo che sia sbagliato l’atteggiamento di chi dice: quello che mi fa comodo (come la libera circolazione dei capitali) va benissimo e poi tutto il resto non mi va bene.

L’immigrazione è però una problematica alla quale l’Europa stessa ha dimostrato di non saper rispondere in modo efficace. Negli scorsi mesi lei si è spesa sia nelle commissioni del parlamento, sia su molti media internazionali, tra i quali Bbc e Cnn, per tracciare possibili soluzioni. Come è possibile che oggi in Europa, dove dovrebbe esistere un efficiente sistema comune di accoglienza, l’unica cosa comune – per riprendere una sua affermazione – sembra essere ‘un immenso cimitero a cielo aperto nel Mediterraneo’?
Il punto centrale è capire che l’immigrazione è una sfida che possiamo affrontare soltanto insieme. Il sistema di Dublino è stato ipocrita fin dal principio, perché caricava di responsabilità tutti gli Stati collocati alle frontiere esterne dell’Unione. Dublino dice che chiunque acceda al territorio Ue è tenuto a presentare la domanda di asilo nel primo Paese di arrivo e questo ha investito di maggiori responsabilità Paesi come Italia, Grecia e Ungheria. Inoltre questa regola cozza con quanto dicono i trattati europei agli articoli 78 e 80. Articoli che parlano di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra Stati membri in materia d’asilo e d’immigrazione. Due anni fa 6 Stati membri su 28 hanno trattato il 77 per cento delle richieste d’asilo. Non credo proprio che questa sia solidarietà. Va detto che fino ad ora la Svizzera è il Paese che ha maggiormente beneficiato dell’accordo di Dublino assieme alla Germania. Le ha consentito di diminuire del 20 per cento all’anno il numero di richieste di asilo da affrontare e le ha permesso di rinviare nei primi Paesi di arrivo moltissimi richiedenti. Io sono convinta che a livello di Ue si dovrebbero rivedere i criteri in modo da assegnare una maggiore ripartizione delle responsabilità; almeno tra Stati membri.

Se è evidente che alcuni Stati Ue pensano prima al loro interesse che a quello comune, come è possibile portare a termine il disegno di un’Europa unita?
L’Unione che abbiamo di fronte oggi, non è certo l’Europa che avevano in mente i suoi fondatori: un progetto di vera solidarietà e di maggiori opportunità e diritti per le nuove generazioni. In realtà il processo di integrazione europeo è rimasto incompiuto; è rimasto incagliato nella mancanza di coraggio dei governi di fare davvero l’unione. Governi che non hanno capito che le maggiori sfide che ci troviamo di fronte oggi, potranno essere risolte solo a un livello sovranazionale. Oltre all’immigrazione pensiamo alla mancanza di un’unica voce forte europea in politica estera. Henry Kissinger, una volta disse: “Se io devo parlare con l’Europa, non ho ancora capito bene chi devo chiamare”. Questa battuta è molto attuale. Ad oggi abbiamo ancora ventotto politiche estere focalizzate sui singoli interessi nazionali, invece che pensate per far valere un’unica voce comune sullo scacchiere internazionale. Voce che avrebbe un peso maggiore, e forse potrebbe competere con quelle di Stati Uniti e Cina. C’è poi la questione della fiscalità: l’Ue ha 28 politiche fiscali diverse, che permettono ad alcuni Stati di fare i furbi. Pensiamo agli scandali del Lussemburgo o all’Irlanda, con le grandi multinazionali come Apple che pagano aliquote dello “zero virgola” a scapito del fisco di altri Paesi membri. Se al posto della solidarietà tra Stati prevale l’egoismo, è evidente che l’Europa non può funzionare. Bisogna andare nella direzione di una maggiore integrazione politica, economica e fiscale, perché solo quella ci può tirare fuori da questa situazione. Tornare al passato sarebbe antistorico, perché le sfide globali che ci troviamo di fronte oggi vedono risistemarsi su nuovi assi le grandi potenze del mondo e ci suggeriscono che soltanto stando insieme possiamo avere un peso e fornire delle soluzioni nuove. Non certo tornando ai ristretti confini nazionali o alle vecchie monete. Sono convinta che la mia generazione, che è quella che ha avuto la fortuna di nascere davvero europea, abbia la grande responsabilità di portare a compimento questo progetto che è restato fermo a metà. Se così non fosse, ne andrà del futuro di tutti noi.

Visto che lei è nata e cresciuta in Ticino, non ha mai pensato di impegnarsi politicamente nel nostro cantone?
Sebbene io abbia sempre avuto una grande passione politica, il mio impegno in prima persona è stato casuale: non mi sarei mai aspettata di finire qui a Bruxelles. Ai tempi del liceo a Lugano facevo parte del comitato studentesco; mi ricordo bene la partecipazione allo sciopero a Bellinzona contro il governo ticinese per i tagli all’istruzione… In qualche modo la politica è sempre stata parte di me. C’è però un motivo se sono finita qui: io facevo parte di quei giovani delusi che si stavano allontanando dalla politica e che si sono resi conto che così facendo rafforzavano chi la politica l’aveva sempre fatta, anche a scapito loro. Abbiamo capito che o ci mettevamo in gioco in prima persona, oppure nessuno avrebbe cambiato le cose per noi. Così, facendo politica a Bologna, dando una mano come volontaria nelle campagne presidenziali di Barack Obama a Chicago, occupando le sedi del Partito democratico contro le “larghe intese”, quasi senza accorgermene sono finita qui a Bruxelles. Dopo questa esperienza però vorrei fare altro. La politica è un servizio a tempo che ci si trova a fare in rappresentanza di cittadini che hanno voluto darti fiducia. Non la vedo come una professione da portare avanti a vita. In futuro vorrei fare cinema.

Allora, per concludere, facciamo un gioco. Illudiamoci che lei sia la regista di un film intitolato ‘L’Isola dell’utopia’: quale location sceglierebbe? E quale sarebbe la storia?
Visto che apprezzo molto i montaggi tra storie parallele, seguirei il meridiano che unisce le due isole che rappresentano alcune delle vicende più tragiche che hanno colpito l’Europa in questi anni: la stupenda isola di Lampedusa, dalla forte valenza simbolica, diventata l’emblema dell’incapacità dell’Ue di dare una risposta alle grandi sofferenze del mondo, e quella norvegese di Utoya, dove il vento dell’estremismo ha ucciso ragazzi che, come me, amavano occuparsi della cosa pubblica. Racconterei le vite che il destino ha fatto infrangere sulle rive di queste isole ed evocherei i loro sogni di speranza per un futuro migliore da lasciare alle nuove generazioni.