Dopo i dati pubblicati dall'Ufficio di statistica sulle differenze salariali tra Svizzera e Ticino, il botta e risposta tra Gargantini e Albertoni
«La situazione è drammatica, e sembra non interessare a nessuno al di fuori di sindacati, lavoratori e sinistra». Il segretario regionale del sindacato Unia Ticino e Moesa Giangiorgio Gargantini è sull'arrabbiato andante quando lo raggiungiamo per una reazione ai dati della Rilevazione della struttura dei salari dal 2020 al 2022 presentata oggi dall'Ufficio federale di statistica. Dati che attestano come la forbice tra il salario mediano svizzero e quello ticinese si sia allargata: 6'788 franchi lordi, la paga mediana nazionale; 5'590 franchi quella in Ticino, la più bassa di tutto il Paese.
«Quello che abbiamo denunciato più volte negli ultimi anni si conferma, e la situazione è ulteriormente peggiorata», rincara Gargantini. Che sottolinea: «L'aumento medio in Ticino, 44 franchi, corrisponde allo 0,7% quando nello stesso periodo l'indice nazionale dei prezzi al consumo denuncia un aumento dei prezzi del 3,4%, quindi cinque volte più importante». A scandalizzare Gargantini è anche il fatto che «oggi, siamo a marzo 2024, scopriamo i dati del 2022 e sappiamo già che fino a marzo 2026 non avremo i dati di oggi. Gravissimo, è impensabile che in un Paese come la Svizzera questo genere di analisi non venga fatto almeno ogni sei mesi. Se non si fa per scelta politica, è perché non lo si vuole fare».
In che senso? «Nel senso che si permette di definire tutt'altre priorità – risponde secco il segretario di Unia Ticino e Moesa –, nel programma di legislatura del Consiglio di Stato ticinese ci sono ben 36 obiettivi, e di questi non ce n’è uno, neanche uno, che riguardi salari e potere d'acquisto. È la cartina di tornasole dell'inazione politica, gli altri 36 obiettivi saranno sicuramente legittimi, ma per il governo valgono tutti più dei salari di lavoratrici e lavoratori. Che devono diventare una priorità». L'occhio è già rivolto al 2026 insomma, con evidente preoccupazione «perché il presente che stiamo vivendo, e i due anni appena passati, sono stati costellati di difficoltà per i salariati. E fra due anni – afferma Gargantini –, evidentemente la assurda e inaccettabile decisione del governo di non retribuire il carovita dei dipendenti pubblici, unico Cantone a non averlo fatto, non farà che peggiorare ulteriormente la situazione perché possiamo facilmente ipotizzare come questa decisione sia presa ad esempio anche da un certo numero di attori nel settore privato».
Ciò detto, constatata la situazione, che fare? «Va aumentato in modo netto il salario minimo, e presto verrà discussa l'iniziativa popolare che chiede di portarlo a 21,50 franchi l'ora. Ma ribadisco, e lo conferma la statistica, il problema è generale su tutta la scala salariale, non solo su quella minima. Occorre l’indicizzazione automatica di tutti i salari al rincaro, ogni anno, e che vengano riconosciute le qualifiche, l'esperienza e che si attui una vera politica di sviluppo economico». Con un obiettivo, va da sé: «Una politica che sia orientata non solo a mantenere l'eccezione ticinese, ma perlomeno a riavvicinarsi al resto del Paese. Quello che si vede da questa Rilevazione è che i salari di tutte le regioni del Paese sono nettamente più alti di quelli ticinesi, non parliamo solo di Zurigo o Ginevra ma anche zone periferiche come il Nord-ovest o la Svizzera centrale».
Tesi, questa, sulla quale ribatte a stretto giro di posta sempre a ‘laRegione’ il direttore della Camera di commercio, dell'industria e dell'artigianato ticinese Luca Albertoni: «Queste statistiche lasciano il tempo che trovano – spiega in entrata –. Il Ticino figura come cantone, contro altre zone che sono invece delle regioni. Se prendessimo i risultati cantonali vedremmo che le differenze sono molto diverse, e più basse. Pensiamo solo all'Arco lemanico, che comprende Ginevra e Vallese, con quest'ultimo che può evidentemente approfittare degli alti livelli di Ginevra e anche Vaud. O ancora pensiamo a Basilea che traina anche il Giura, o i cantoni primitivi che hanno Zugo e Lucerna come locomotiva». Insomma, per Albertoni «il confronto su queste basi non sta in piedi, ci porta a relativizzare molto questi risultati».
I dati considerati dall'Ufficio federale di statistica, riprende Albertoni, «portano con sé anche il fatto che c’è un'evidente concentrazione di molti centri dirigenziali in determinate regioni forti che influenzano i risultati, a costo di essere ripetitivo ricordo ancora che a Basilea c’è un polo farmaceutico che è ovvio che traini a livello di salari pagati: non si possono paragonare le mele con le pere». Poi, chiaro, Albertoni lo riconosce: «Noi abbiamo una percentuale importante di settori a basso valore aggiunto, che però non vuole dire abbiano scarso valore in sé: albergheria, ristorazione, commercio al dettaglio hanno salari più bassi. Ma essendo il Ticino un cantone e non una regione, non è comparabile con quanto succede altrove. In più, tolti i frontalieri si arriva a livelli differenziali ben diversi, perché in Ticino i frontalieri guadagnano meno che in altre regioni: prima di sparare sull'imprenditoria sarebbe bene pensarci due volte, analizzare bene i dati e le tabelle comparando mele con mele, non mele con pere».
D'accordo, ma al di là di come i numeri vengono raccolti e strutturati, c’è un problema di salari in Ticino? «Non c'è in maniera generalizzata – risponde Albertoni –, per i motivi che abbiamo detto prima. Spesso il livello è più basso perché non abbiamo grandi poli dirigenziali o farmaceutiche, abbiamo un tessuto economico diverso». Sia come sia, «qualcosa si può sempre migliorare, ma rilevo che il problema non è generalizzato».