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‘Il certificato antimafia? Una barriera alle infiltrazioni’

In Ticino il pm di Palermo De Lucia, il magistrato che ha arrestato Messina Denaro: ‘Serve legislazione comune in Europa contro il crimine organizzato’

In sintesi:
  • Ospite del festival culturale ‘Endorfine’, il procuratore capo di Palermo era ieri a Lugano, dove ha tenuto una conferenza aperta al pubblico. ‘laRegione’ lo ha intervistato.
  • Sull'armonizzazione delle leggi "si sono già fatti passi avanti in questa direzione, ma ne andrebbero fatti altri"
Maurizio de Lucia ieri a Lugano, ospite del festival culturale Endorfine
(Ti-Press/Davide Agosta)
18 settembre 2023
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Cosa ha rappresentato la Svizzera per il boss trapanese di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro? «Per lui, e per tutta l’organizzazione mafiosa, ha rappresentato una possibilità per investire, per riciclare soldi provenienti da traffici illeciti, a cominciare dal traffico di stupefacenti. Questo soprattutto in passato, perché oggi la vigilanza e la capacità investigativa delle autorità elvetiche hanno raggiunto un livello elevato, tale da disincentivare l’afflusso nel vostro Paese di soldi mafiosi. Ora, noi riteniamo che una parte dei capitali ancora nelle disponibilità di Messina Denaro si trovi all’estero. E quando parliamo di estero, parliamo anche della Svizzera. C’è una rogatoria in corso». Sulla richiesta di assistenza giudiziaria, il procuratore capo di Palermo non aggiunge altro. Comprensibilmente, visto il segreto istruttorio. Maurizio de Lucia è il magistrato che con il proprio team di inquirenti ha arrestato il 16 gennaio di quest’anno Matteo Messina Denaro. Un lavoro di squadra che ha visto in prima linea, oltre a de Lucia, il suo aggiunto Paolo Guido e, tra le forze dell’ordine, il Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri. Un lavoro di squadra che ha permesso di interrompere una latitanza di trent’anni. Con l’inviato di ‘Repubblica’ Salvo Palazzolo, de Lucia è anche autore de ‘La Cattura - I misteri di Matteo Messina Denaro e la mafia che cambia’. Edito da Feltrinelli, il libro è uscito lo scorso mese. Nel frattempo le condizioni di salute di Messina Denaro, malato di tumore, si sono aggravate. Ospite del festival culturale ‘Endorfine’, il procuratore capo di Palermo era ieri a Lugano, dove ha tenuto una conferenza aperta al pubblico. ‘laRegione’ lo ha intervistato.

Dottor de Lucia, nel libro afferma che “la verità nelle parole di un mafioso è nelle cose che non dice”. Messina Denaro quante cose non vi ha detto?

Tante. Del resto lui non ha alcuna intenzione di collaborare con lo Stato. Di ciò abbiamo preso e prendiamo atto. Lo ascoltiamo nella misura in cui questo può essere utile alle nostre indagini, evitando di concedergli spazi per lanciare messaggi verso l’esterno, verso Cosa nostra. Abbiamo comunque altri strumenti per cercare le cose che non ci dice. In base a una serie di segnali, riteniamo per esempio che le sue attività criminali e della sua organizzazione si siano sviluppate non solo nel Trapanese e non solo su territorio italiano. Quanto alla latitanza di Messina Denaro, questa è stata finanziata con soldi – abbiamo trovato lui, ma abbiamo trovato anche molto contante con lui – derivanti dalle ‘normali’ attività criminose condotte dall’organizzazione mafiosa sul proprio territorio, come estorsioni e ‘mediazioni’ su appalti.

I media hanno solitamente definito Matteo Messina Denaro il boss della mafia siciliana, il capo dei capi, dopo l’arresto di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Sempre in ‘La Cattura’ lei però scrive che Messina Denaro “non è mai stato il capo di Cosa Nostra”...

Cosa Nostra è una struttura che ha centosessant’anni di storia e ha le sue regole. Tra queste, la regola secondo cui il capo deve essere espressione dell’area palermitana. Dopodiché Messina Denaro è stato certamente il capo della provincia mafiosa di Trapani, il che non è poca cosa. Per via della sua latitanza trentennale e dei rapporti che ha avuto con il gotha di Cosa Nostra – dunque, e fra gli altri, con gli stessi Riina e Provenzano – ha assunto un ruolo carismatico, ciò che lo ha reso di fatto il capo senza esserlo, per così dire, istituzionalmente.

Insomma, catturati Riina, Provenzano, Salvatore Lo Piccolo, Messina Denaro e altri mafiosi dei piani alti dell’organizzazione, chi tiene ora le redini di Cosa Nostra?

È uno dei temi che più ci impegnano. Per tornare a essere potente Cosa Nostra ha bisogno di un vertice, di una nuova Commissione, necessaria a questo tipo di mafia, una mafia unitaria. Ha già provato a ricostituire questo vertice, ma ha fallito perché le nostre indagini e i processi glielo hanno impedito. Cosa Nostra è comunque in grado di sopravvivere. Oggi non ha una Cupola che comanda, che prende le decisioni strategiche, ma i mandamenti e le famiglie ci sono e continuano a governarsi, chiedendo per esempio il pizzo, che non serve per arricchirsi, ma per manifestare la continuità della presenza dell’organizzazione mafiosa sul territorio.

L’assenza della Cupola, di un vertice che decide e controlla, non rischia di far saltare la pax mafiosa?

In linea teorica sì. Oggi però le regole dell’organizzazione sono in qualche modo rispettate da tutti gli appartenenti a Cosa Nostra poiché conviene a tutti loro. Anche perché, a differenza del passato, la presenza dello Stato sul territorio è molto massiccia. Poi è chiaro: non abbiamo la sfera di cristallo.

Cosa Nostra è quindi in crisi? E se sì come si riflette questa crisi sull’alleanza o sui rapporti con la mafia calabrese, la ’Ndrangheta? È quest’ultima a dettare le regole?

Parlando in termini generali possiamo dire che Cosa Nostra è in crisi. Dalla quale vuole però uscire. E per uscire ha bisogno, come dicevo prima, di ricostituire un vertice. E di fare anche soldi, perché nel tempo l’azione di contrasto da parte dello Stato si è tradotta non solo nell’arresto di mafiosi: li ha pure impoveriti attraverso sequestri e confische. Cosa Nostra deve allora rientrare nel mercato degli stupefacenti perché è un mercato criminale che consente con un investimento limitato di ottenere rapidamente tanto denaro. Per questo deve discuterne con chi è già su questo mercato, cioè la ’Ndrangheta. Ma non c’è sovrapposizione o sottoposizione. Diciamo che tra le due organizzazioni mafiose c’è un dialogo in corso.

Pizzini, molti pizzini anche nella latitanza di Messina Denaro. Altro che piattaforme criptate…

Uno strumento non esclude l’altro. Nelle piattaforme criptate si definiscono gli affari. Ma Cosa Nostra deve comunicare anche con persone che non conoscono le nuove tecnologie o non hanno dimestichezza con la comunicazione digitale. E i pizzini continuano ad avere una loro efficacia. Una conversazione telefonica può essere intercettata. Con il pizzino, quale strumento di comunicazione nel territorio, il messaggio viene recapitato più lentamente, ma assicuro che la ricostruzione del percorso seguito dal pizzino, per sapere in quanti e quali mani è passato, è piuttosto difficile, impegnativo.

Veniamo a una questione che interessa da vicino anche la Svizzera, e in particolare il Ticino, quello delle infiltrazioni mafiose. Nel libro lei sostiene: “Noi abbiamo anche una responsabilità in una dimensione europea: quella di mettere in guardia gli altri Paesi rispetto ai rischi di una sofisticata infiltrazione mafiosa”.

Quando parliamo con la polizia e con l’autorità giudiziaria svizzere siamo sulla stessa lunghezza d’onda: c’è la consapevolezza della vastità del fenomeno mafioso, di una mafia che non conosce confini. Il mafioso ha interesse a fare il mafioso in senso tradizionale nel suo territorio, ma nell’Italia settentrionale o in altri Paesi ha interesse anzitutto a fare affari con il denaro conseguito tramite traffici illeciti. Se è in ballo un grosso appalto e non vi sono chiare e severe regole e sufficienti e incisivi strumenti investigativi a salvaguardia della legalità, il mafioso che vuole aggiudicarsi il lavoro cerca di truccare l’appalto, ricorrendo poi, se necessario, all’intimidazione. Questo è ancora difficile da far capire a chi non conosce direttamente la violenza della mafia. Il rischio è di arrivare troppo tardi a scoprirlo. Per questo è indispensabile un sistema culturale, investigativo e giuridico europeo che ci protegga dalle infiltrazioni mafiose, le quali inquinano l’economia legale.

Quali sono o possono essere i segnali della presenza mafiosa in un territorio tradizionalmente non mafioso?

Possono variare. Un esempio. Se gran parte delle attività commerciali di un’importante via di un’importante città finisce nelle mani di soggetti provenienti dalla stessa area geografica italiana caratterizzata da un’alta densità mafiosa, questo non significa ancora che siamo in presenza di un’organizzazione criminale, ma una verifica sui proprietari di quelle pizzerie e di quei negozi sarebbe, oltre che opportuna, necessaria. Dietro poi a certe bancarotte tradizionali ci possono essere episodi di riciclaggio o di successiva appropriazione di beni: solo però delle indagini potrebbero stabilirlo.

A proposito di appalti, di appalti pubblici, il deputato al Nazionale Marco Romano ha invitato il Consiglio federale a studiare la possibilità, previo intervento legislativo, per Confederazione e Cantoni di chiedere alle ditte con “sede principale in Italia” intenzionate a partecipare alle gare di presentare il certificato antimafia. Che ne pensa?

Per una risposta esaustiva, dovrei conoscere l’intera legislazione svizzera in materia di appalti. Ciò che posso dire è che in Italia il certificato antimafia si è rivelato utile. È una barriera alle infiltrazioni della criminalità organizzata. Le organizzazioni mafiose che vogliono partecipare a una gara d’appalto hanno bisogno di un prestanome, di un prestanome pulito. Col rischio però di essere denunciate da questo prestanome pulito. E quindi di essere scoperte.

Per agevolare il contrasto alle mafie, non sarebbe necessaria un’armonizzazione delle leggi perlomeno a livello europeo?

Certamente. Si sono già fatti passi avanti in questa direzione, ma ne andrebbero fatti altri. Ci sono alcuni Paesi europei che ancora pensano che il fenomeno mafioso riguardi solo la Sicilia, la Calabria e la Campania. È un grave errore. Il pericolo costituito dalle mafie riguarda l’intera Europa. Un sistema giuridico armonizzato sarebbe utilissimo, anche per il rapido scambio di dati ed esperienze. In Italia dal 1982 abbiamo il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, l’articolo 416 bis, reato che gli altri Paesi fanno fatica a riconoscere e a inserire nella loro legislazione. Inoltre non ci sono solo le mafie italiane. Cominciano a manifestarsi organizzazioni criminali molto pericolose in altri Paesi. Mi riferisco all’Europa dell’Est, e in particolare alla mafia albanese, che sta conquistando spazi importanti nel traffico di stupefacenti. Avere un’area giuridica comune, sarebbe molto importante nel contrasto al crimine organizzato.