Ticino

Reporter di guerra, un mestiere che non s’improvvisa

O almeno, non si dovrebbe. Note professionali per capire come funziona dietro le quinte un lavoro parecchio pericoloso

In sintesi:
  • Il giornalismo di guerra? È sempre stato circondato da un’aura di romanticismo
  • Molte cose sono cambiate rispetto al passato: oggi è un mestiere più razionale, ragionato, tecnico, basato meno sull’estro e sull’improvvisazione e più sul calcolo di costi e benefici
(Depositphotos)
9 maggio 2023
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Il lavoro di un giornalista in un’area di crisi o in zona di guerra è molto complesso. La mia prima esperienza come giornalista di guerra è stata nel 2006, durante il conflitto tra Hezbollah e Israele. Ero un novellino, e in questi casi l’unica soluzione possibile per me era quella di imparare lavorando insieme a colleghi che avevano maggiore esperienza. All’epoca non esistevano in Italia addestramenti specifici e la conoscenza in materia di sicurezza era limitata all’autoapprendimento personale. In sostanza: imparare dai propri errori. E gli errori capitavano spesso.

Primo: non improvvisare

Molte cose sono cambiate rispetto al passato. Oggi dovrebbe essere obbligatorio fare corsi specifici, addestramenti intensivi per migliorare la propria sicurezza in ambienti ostili, corsi in cui insegnano a utilizzare correttamente i dispositivi di protezione (giubbotto antiproiettile ed elmetto), intervenire per fermare un’emorragia massiva e trattare altre ferite di guerra; avere anche nozioni di sicurezza informatica, di orientamento e saper riconoscere e gestire i sintomi da stress ed eventuali traumi psicologici. O almeno, dovrebbe essere così.

Invece molti ancora oggi queste cose non le conoscono. Il giornalismo di guerra è sempre stato circondato da un’aura di romanticismo. “Non posso raccontare come si muoia al fronte standomene seduto in albergo, lontano dalla battaglia. Che ne so di come si sta in un assedio, di come si svolge la lotta, di quali armi abbiano i soldati, di quali vestiti indossino, di che cosa mangino e che cosa provino?” scriveva Ryszard Kapuściński. L’inviato di guerra, intrepido, infaticabile, avventuroso, che rischia la vita perché deve stare lì dove succedono le cose, che vive insieme a chi in prima linea combatte. Queste figure quasi mitiche, perfette per soggetti cinematografici, come quella di Richard Boyle per il film ‘Salvador’ di Oliver Stone, hanno lasciato gradualmente il posto a un mestiere più razionale, ragionato, tecnico, basato meno sull’estro e sull’improvvisazione e più sul calcolo di costi e benefici di una missione o sul muoversi pensando alla propria sicurezza personale e a quella di chi sta intorno prima che allo scoop, perché, alla fine di tutto, la pelle la devi portare a casa insieme al tuo lavoro. C’è una frase di Terry Anderson, giornalista americano rimasto ostaggio di Hezbollah in Libano dal 1985 al 1991, che esprime bene questo concetto: “Sempre, costantemente, ogni minuto, soppesa i benefici contro i rischi. E non appena arrivi al punto in cui ti senti a disagio con quell’equazione, esci, vai, parti. Non ne vale la pena, non esiste una storia per cui valga la pena di essere uccisi”.

Sempre più freelance

Mentre all’estero le troupe americane e inglesi girano già da anni nei luoghi più problematici con veicoli blindati e con un addetto alla protezione del personale (in genere un ex militare) al seguito, in Italia questa attenzione verso la sicurezza è sempre stata scarsa e poco presente. Ha iniziato molto lentamente a svilupparsi a partire dal 2011, dalla guerra civile in Libia e poi in Siria, soprattutto nel mondo dei freelance, che nelle aree di crisi stanno superando per presenza gli inviati di guerra dei giornali, una figura rimasta solo nelle grandi testate. Il giornalista di guerra freelance, però, rispetto ai colleghi contrattualizzati non può permettersi di fare errori. O se li fa li paga più pesantemente anche dal punto di vista economico, perché investe i propri soldi e non ha una redazione su cui fare affidamento. Tutta la parte logistica, alberghi, spostamenti, noleggio auto eccetera è completamente sulle sue spalle. I benefici e i rischi di cui parlava Anderson si sommano ai budget preventivi che si devono fare sulle spese da affrontare: costi e ricavi. Si deve essere in grado, prima della partenza, di valutare il livello di rischio a cui si può andare incontro, cioè capire in che tipo di situazione ci troveremo, quali le problematiche (rete elettrica, telefonica, traffico dati, sistema bancario funzionante o meno…) e i potenziali sviluppi di quella situazione. Si devono preparare i bagagli inserendo equipaggiamento e strumentazione, oltre a quella di lavoro, che potrebbe servire in quello specifico contesto. E ogni scenario è differente.

Un esempio: il giubbotto antiproiettile generalmente non serve per coprire una manifestazione, ma potrebbe servire in un Paese dove la polizia spara sui manifestanti. È successo, per esempio, nel 2013 in Egitto durante la repressione delle manifestazioni di protesta contro la deposizione del presidente Mohamed Morsi da parte dei militari: un collega italiano venne ferito allo stomaco da un proiettile di Ak-47 sparato dai militari. Si salvò per miracolo. Altre situazioni di un potenziale rischio potrebbero essere un confronto armato tra diversi gruppi politici rivali o un contesto criminale (come nel coprire operazioni di polizia in una favela brasiliana) o una situazione di forte instabilità politica (possibilità di colpo di Stato, rivoluzioni, scontri etnici, escalation militare tra due Paesi e così via). Se in un conflitto possono essere utilizzate armi chimiche si valuta se portare una maschera antigas o una tuta Nbc (nucleare, biologica, chimica). Se si opera in una zona dove non c’è traffico dati serve un dispositivo satellitare; servono mappe cartacee per muoversi o si scaricano prima per poterle poi consultare offline. In alcuni casi, ci si può trovare davanti a problemi di tipo sanitario: mancanza di acqua potabile, mancanza di un sistema di pronto soccorso e ospedali attrezzati in zone remote, malattie endemiche.

L’importanza dell’intelligence open source

Una prima buona regola prima di ogni spostamento dovrebbe essere quella di fare attività Osint (Open Source Intelligence), cioè si deve essere in grado di reperire dati e informazioni da fonti aperte. I social sono fondamentali. Esistono comunità Osint fatte da utenti amatoriali e professionisti in grado di dare informazioni attendibili e geolocalizzazioni precise su quanto sta avvenendo in un luogo. Esistono mappe costantemente aggiornate online sui conflitti in corso in diverse aree del mondo. Tutte queste informazioni ci permettono di capire dove si può andare e dove no, come si muove la linea del fronte, cosa sta succedendo in tempo quasi reale. Ogni tipo di informazione che sia sotto forma di immagini, fotografie, dati o altro ci può servire per capire un determinato contesto. Importantissimo è lo scambio di informazioni con colleghi che si sono recati in precedenza sul luogo (che hanno anche una differente percezione delle cose rispetto a chi vive sul posto) e il fatto di tenere in considerazione gli allarmi dati in precedenza. Su social network come Facebook esistono pagine ‘segrete’ di giornalisti internazionali, con delle sottopagine dedicate a differenti aree di crisi, dove è possibile chiedere e offrire informazioni, reperire collaboratori, confrontarsi su un determinato Paese.

In un conflitto vanno acquisite informazioni sugli armamenti utilizzati. Eventualmente vanno identificati quali sono i possibili altri rischi (come, per esempio, i rapimenti) anche con le autorità locali e si devono avere tutti i permessi richiesti per svolgere il proprio lavoro. In Ucraina, ad esempio, bisogna interfacciarsi con i press officer militari se si vuole interagire con l’esercito e andare sulla linea del fronte. A Kherson, zona sensibilissima considerata a tutti gli effetti linea del fronte, dove purtroppo è successo l’ultimo fatto di sangue con la morte di un fixer ucraino e il ferimento di un giornalista italiano, servono tre livelli di autorizzazioni e una parte della città, quella del ponte di Antonivka dove è avvenuta la sparatoria che li ha coinvolti, è considerata vietata per i media data la pericolosità.

Chi avere accanto

E qui veniamo alle figure che affiancano solitamente il giornalista sul posto. Una, appunto, è quella del fixer, che può essere un giornalista locale, un ex militare o comunque qualcuno che non soltanto è in grado di fare traduzioni in tempo reale, ma anche di sbrigare pratiche burocratiche, fissare appuntamenti, districarsi in situazioni problematiche e, spesso, è anche in grado di trovare storie interessanti. Una sorta di tuttofare in grado di capire le esigenze del giornalista e di preparare il suo lavoro prima che arrivi sul posto. Altra figura importante è l’autista. Le troupe più attrezzate solitamente hanno un buon driver che conosce le strade e una buona macchina (in genere 4x4) in grado di affrontare differenti tipi di terreno. Controllare se il veicolo ha la ruota di scorta o se vi sono problemi con la chiusura e apertura delle porte fa parte di quelle attenzioni che un giornalista freelance deve avere, soprattutto se non può fare affidamento o non può pagare un autista. Una macchina che ha le portiere che non si aprono in caso di abbandono repentino del veicolo è, infatti, un grosso problema.

Ultima figura, non meno importante e solitamente utilizzata per produzioni di medio e grosso livello è il field producer che funge da collegamento tra la troupe e la redazione e che si occupa di tutto il processo produttivo (organizzare interviste, acquisire video e raccogliere dati). Insomma, oggi il giornalismo di guerra non è più solo un mestiere romantico. Al contrario, è un mestiere dove la conoscenza acquisita attraverso l’addestramento e la tecnica è fondamentale.