Ne parliamo con Paolo Coppi, vicesegretario regionale del Luganese del sindacato Ocst: ‘Non credo si possa parlare di una crisi’
A ottobre era stata Novartis ad annunciare in tutta Europa il taglio, clamoroso, di 8’000 impieghi (1’400 in Svizzera). Era seguita la Helsinn di Pazzallo con il ridimensionamento di una quarantina di posti di lavoro. Neppure un mese dopo, la stessa decisione, è venuta dalla Soho Flordis International (Sfi) Health di Bioggio. Un settore, quello chimico-farmaceutico, che pareva al sicuro dalle numerose crisi in atto (economia, guerra, energia). Invece... Ne parliamo con Paolo Coppi, vice segretario regionale del Luganese del sindacato Ocst.
Negli ultimi mesi si sono avute notizie di licenziamenti e ridimensionamenti in alcune aziende chimico farmaceutiche della Svizzera italiana. Eppure sembravano ‘intoccabili’, anzi destinate a crescere. Vi aspettavate, come sindacati, questa ‘crisi’ del settore?
Non credo si possa parlare di una crisi del settore. Anche se, per il fatto che i casi sono avvenuti in modo molto ravvicinato, possono preoccupare, sono del parere che siano frutto piuttosto di scelte aziendali che non hanno avuto quei riscontri che, diversamente, ci si aspettava. In realtà il settore chimico-farmaceutico, e lo dico guardando anche ai dati, è comunque un settore solido per il Ticino e forse ancor più per la Svizzera in generale. Per quanto due aziende nel giro di sessanta giorni hanno annunciato due fasi di consultazione per motivi di licenziamenti collettivi è un settore che a livello di numeri e prestazioni resta alto. Quindi non credo che sia un problema generalizzato del chimico-farmaceutico. Credo, e lo ribadisco, che siano due aziende, con sede in Ticino, che hanno fatto delle scelte attraverso le quali, probabilmente, si aspettavano risultati diversi e certamente non negativi.
Pare di capire, dai vostri riscontri, che non vi siano criteri oggettivi per queste scelte. È così?
È evidente che la nostra speranza è che, in realtà, siano state prese decisioni utilizzando dei criteri che siano oggettivi o quantomeno equilibrati. Dalle testimonianze che noi abbiamo ricevuto da diverse persone che hanno deciso di raccontarci la loro esperienza, non sembra in effetti che i criteri fossero così oggettivi o quantomeno non sono stati chiariti a monte, ovvero non c’è stata una discussione o una fase di consultazione che abbia portato a stabilirvi dei criteri chiari.
Avete riscontrato disponibilità, da parte delle direzioni, nell’avviare un dialogo e una collaborazione così da tutelare i dipendenti?
Pur con modi cordiali, possiamo purtroppo affermare che, in sostanza, collaborazione e disponibilità al dialogo hanno rasentato lo zero. Per cui non abbiamo avuto la possibilità se non, limitatamente, di scambiarci qualche email e incontrarci in modo molto formale, incontri quindi che non sono sfociati in incontri con i lavoratori, per essere anche in grado di orchestrare una fase di consultazione la più larga possibile. E questo secondo noi mette evidentemente in luce una debolezza di certi ambienti professionali, si fa fatica cioè a comprendere l’importanza invece della dimensione collettiva, che è l’unica via che, volenti o nolenti, mette il lavoratore allo stesso livello del datore di lavoro. Perché altrimenti è il datore di lavoro che gestisce tutte queste situazioni singolarmente con ogni dipendente e perciò attraverso un rapporto di forza sproporzionato. Dunque pur non volendo pensar male è difficile credere che questa cosa non sia voluta. Perché per il datore di lavoro questa strada risulta la più facile, la più veloce e dal suo punto di vista la più efficace. È difficile in questo modo avere la forza di poter proporre delle alternative.
C’è, nelle aziende chimico farmaceutiche presenti in Ticino, una sorta di smobilitazione soprattutto del settore della ricerca a favore di quello della produzione? Pare che se da una parte si taglia, nell’altra si aggiungono turni.
Non ho elementi oggettivi per formulare una risposta compiuta a questa domanda. Potrei parlare a livello di sensazione perché, per esempio nel Luganese, la percezione è che il livello di attività produttive aumenti. Bisognerebbe andare a verificare se il numero di brevetti o ricerche attive su nuovi principi in Ticino è in aumento oppure resta stabile o addirittura diminuisce. Di sicuro un elemento che potrebbe aiutare il Ticino a rimanere competitivo a livello di chimico-farmaceutico è la possibilità di investire sulla formazione universitaria, questo senz’altro. Ciò porterebbe a dare un po’ di competitività alla nostra regione contrariamente da altre più a nord, come Basilea, che è leader nell’ambito del chimico-farmaceutico anche perché ha la possibilità di avere a disposizione istituti universitari di prim’ordine che poi formano le persone che poi a loro volta vanno a lavorare ad alto livello nelle aziende.
Vi è un pericolo reale che queste aziende scelgano presto o tardi di ‘traslocare’ all’estero?
Non credo anche perché, per questo tipo di attività, c’è bisogno di competenze di altissimo livello, anche a livello di produzione, per cui difficilmente in quattro e quattr’otto un’azienda chimico-farmaceutica può trovare un territorio che sia ricettivo come può essere quello ticinese che può contare su manodopera specializzata che arriva dal nord d’Italia, in particolare dalla vicina Lombardia, e che ha a disposizione personale qualificato e preparato. E comunque, diciamocelo, è un territorio che nel periodo del Covid ha dimostrato di essere estremamente solido e solidale per le aziende. Per cui non sono così convinto che le aziende chimico-farmaceutiche possano delocalizzare o abbiamo intenzione di farlo. Dipende peraltro da cosa producono. Un’azienda che fa sacchetti di plastica posso anche immaginarlo, ma un’azienda chimica che in realtà lavora nell’ambito del farmaceutico secondo me vede nel Ticino e nella Svizzera un territorio dove ancora è conveniente rimanere.
Avete sentore di altre aziende che starebbero riflettendo su eventuali riorganizzazioni del personale?
Al momento no. Non posso fare nomi, però sono agli occhi di tutti gli investimenti che sta facendo Ibsa sul territorio a livello di immobili. La cito esclusivamente perché è evidente, ma vi sono altre aziende che hanno già fatto sapere che nei prossimi anni investiranno maggiormente in Ticino. Ciò non esclude, purtroppo, la casualità. Prendiamo l’azienda che per ‘enne’ motivi, magari in atto già prima del Covid, era in difficoltà e che magari con questa grossa difficoltà di approvvigionamento di materie prime e aumento dei costi dell’energia, andrà incontro a ulteriori difficoltà nei prossimi mesi. Ma questo è indipendente dal chimico-farmaceutico tout court.