Federica De Rossa, professoressa Usi, è la prima donna ticinese al Tribunale federale. Le abbiamo parlato
In un mondo ideale non dovrebbe neppure essere una notizia, e noi giornalisti dovremmo concentrarci sull’individuo invece che sul genere. Ma il mondo non è mai ideale, e quindi il fatto che Federica De Rossa sia diventata giudice federale ‘fa i titoli’ anche perché si tratta della prima donna ticinese a ricoprire questa carica. Tanto che ci togliamo subito la curiosità su un tema che ormai pare interessare tutti, da Giorgia Meloni ai sociolinguisti da apericena: scriviamo "il" giudice o "la" giudice? «"La" giudice, su questo non ho dubbi. Le parole plasmano la realtà, è importante che riescano a incorporare il superamento di funzioni che non sono appannaggio esclusivamente maschile. Con alcune colleghe dell’Università (De Rossa dirige l’Istituto di diritto dell’Usi, ndr) abbiamo scritto all’Accademia della Crusca per chiedere se si può usare "la membra di comitato". Ci hanno risposto che, benché il termine non sia ancora entrato nell’uso e suoni in maniera strana, è importante avere il coraggio di sperimentare».
Se guardiamo la luna invece del dito, basta questa risposta per intuire la riflessiva determinazione che contraddistingue De Rossa, professoressa straordinaria di Diritto dell’economia a Lugano con vent’anni di esperienza accademica, dopo una laurea e un dottorato a Friborgo e un brevetto di avvocata. Cresciuta a Bellinzona «da giovani genitori sessantottini, docenti delle medie, in un contesto familiare lontano da quello tradizionale dell’epoca». Il tipo di ambiente in cui ci si aspetterebbe che la figura del giudice venga ridotta allo stereotipo del burbanzoso persecutore nerotogato, come in certe canzoni di De André in cui "mandarli al boia fu un piacere del tutto mio". Invece «quello di diventare giudice è un sogno che avevo fin da adolescente, forse anche un po’ per spirito di contraddizione e per rispondere al mio bisogno di mettere ordine, che mi ha spinto a studiare diritto. Non sono mai stata conservatrice, ma che anche allora fossi un po’ ‘squadrata’ me lo dicevano sempre anche i miei…».
È poi stato anche grazie al suo mentore a Friborgo, il professor Marco Borghi, che «da quell’ordine ho imparato a tirar fuori l’attenzione per l’effettività dei diritti individuali, la preoccupazione cioè che questi siano riconosciuti per ciascun individuo, non solo in via formale e astratta. In ogni Paese, anche quelli con un elevato benessere sociale come il nostro, occorre essere consapevoli del fatto che esistono delle persone emarginate e calibrare il sistema sociale in modo da assicurare a tutte loro una vita dignitosa attraverso l’accesso a prestazioni di base. Ricordiamoci che la nostra Costituzione dice che la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri».
Le facciamo notare con qualche malizia che il discorso sugli ‘ultimi’ parrebbe rivelare un imprinting di sinistra, tanto più che De Rossa arriva a Losanna proprio in quota Ps: non a tutti piace il metodo di selezione che richiede ai giudici un’affiliazione partitica. Lei non si scompone: «Si tratta di un tema molto delicato e certamente problematico, del resto da tempo criticato da più parti. Finché non si troveranno alternative migliori, credo che questo sistema abbia almeno il pregio di esplicitare in maniera trasparente le sensibilità di ciascun giudice, in modo da comporre collegi capaci di accogliere visioni diverse della società».
Eppure, le ricordiamo, c’è chi pensa che la giustizia richieda una sorta di robotica imparzialità, come se si potesse agire senza il condizionamento di ciò in cui si crede, che si auspica, che si sa o non si sa. Un’opinione diffusa, al punto che in politica qualcuno vorrebbe ‘automatizzare’ le sentenze. «In realtà – ricorda De Rossa – il diritto non è puramente tecnico e i giudici non sono semplicemente "la bouche de la loi" (il riferimento è a un diffuso motto di Montesquieu, ndr). Nell’applicazione del diritto vi sono margini di apprezzamento, specie sulle nozioni giuridiche indeterminate o sui princìpi più generali come quello della proporzionalità, nei quali inevitabilmente giocano un ruolo – dopo la valutazione tecnico-giuridica – anche la sensibilità individuale del o della giudice, il suo bagaglio culturale e l’esperienza della vita. Proprio per questo è opportuno comporre collegi giudicanti consapevolmente diversificati. Sta poi a ciascuno superare i suoi condizionamenti individuali attraverso il dialogo coi colleghi». Un aspetto tanto più importante nelle aule federali, dove le motivazioni di una sentenza fanno scuola, a cascata, per tutto il sistema giuridico svizzero.
Nel corso dei suoi anni all’Usi, l’Istituto di diritto guidato da De Rossa si è contraddistinto per l’approccio fortemente eclettico e multidisciplinare, come dimostra il seminale lavoro svolto sulla giustizia riparativa: l’idea cioè che al consueto svolgersi del processo penale – dall’indagine alla prigione, per capirci – possa affiancarsi un dialogo tra le vittime e gli autori di reato, in modo che ciascuno si senta ‘visto’ e riconosca l’altro, e che la vittima stessa possa elaborare traumi e vissuti rimasti fuori dalla lente della giustizia ‘classica’. Anche se a Losanna non si occuperà di penale, ma di civile (ad esempio di diritto delle persone, di famiglia e delle successioni), De Rossa ritiene che quell’esperienza le abbia «aperto gli occhi sul fatto che ogni procedura ha delle esternalità anche su chi non ne è parte diretta» e che quindi «possa aiutarmi a capire e tenere in considerazione anche quello che la procedura formale non vede, a chiedermi cioè ogni volta quale impatto possa avere una decisione non solo sul diretto interessato, ma anche sul suo contesto familiare e sociale».
A costo di esagerare con la melassa, le chiediamo se questo approccio richieda alla giudice d’empatizzare con chi si trova davanti, e se così facendo non si rischi di esulare dal proprio ruolo: «Se una certa empatia è necessaria – ribatte De Rossa – è chiaramente necessario anche lasciar sedimentare le decisioni per avere un giusto ‘recul’, una presa di distanza, perché la legge non si può applicare con la pancia». Se poi un certo coinvolgimento psicologico è inevitabile, come in tutti i mestieri che mettono a diretto contatto coi destini del prossimo, «credo che anche in questo mi aiuti proprio il grande lavoro psicologico che ho svolto su me stessa, in modo da conoscermi meglio e conquistare un equilibrio sempre più consapevole».
A proposito di equilibri, l’ultima domanda è tanto odiosa – a un uomo non ci verrebbe mai in mente di porla – quanto importante, sempre per quella cosa che non viviamo in un mondo ideale: come ha conciliato la carriera con la famiglia? «Credo che in effetti sia comunque importante parlarne, almeno finché non si distruggeranno quei soffitti di cristallo che vedono le donne fortemente sottorappresentate in tanti settori professionali, ad esempio nelle cattedre universitarie, in una proporzione di circa una ogni quattro uomini. Credo poi che sia fondamentale cambiare la narrazione – che purtroppo ci ha accompagnate e condizionate sin da bambine! – della "rinuncia": ai figli per la carriera, o alla carriera per i figli. Non rinunciamo ai nostri sogni e alle nostre inclinazioni, ma dobbiamo essere consapevoli che conciliare famiglia e carriera è già di per sé un secondo lavoro, un lavoro da veri e propri manager che idealmente dovrebbero fare entrambi i genitori. Oggi però è difficile farcela se non ci si può appoggiare a una forte rete familiare e sociale, quella che ho avuto la fortuna di avere io. Per questo è importante rafforzare il sostegno alle famiglie, ad esempio con strutture pre- e parascolari di accudimento dei figli».
Il primo gennaio De Rossa entrerà – anche se in realtà era già giudice supplente – in un’istituzione che non è più quella che vide Margrith Bigler-Eggenberger, prima donna giudice federale, nel 1972: allora si ritrovò colleghi maschi che non le rivolgevano neppure la parola. Oggi il Tribunale federale conta 16 donne su un totale di 38 giudici (di cui 3 italofoni), ed è «un luogo in cui mi aspetto che quello di genere non sia più un problema». Quanto alla famiglia, è stato il figlio più piccolo – De Rossa ne ha due, di 12 e 14 anni – «a farmi un grande regalo quando ho chiesto cosa ne pensassero di questa opportunità. Mi ha detto: ‘Mamma, è sempre stato il tuo sogno, devi realizzarlo! Noi ormai stiamo crescendo’. Mi piace sperare che siccome sono cresciuti vedendomi appassionata a quello che faccio, entrambi sapranno a loro volta coltivare le loro passioni e quelle di chi li accompagnerà nella vita. Mi solleva vedere che mi sostengono in questo passo e che, a differenza di una parte della società, non giudicano negativamente il mio impegno, non lo vivono come un ‘abbandono’, ma come qualcosa in più per la mia realizzazione».
Un’ultima curiosità: De Rossa ama molto il canto corale ed è stata per anni nei Cantori della Turrita. «Credo che anche questa passione non sia diversa dalle inclinazioni che mi hanno spinto a diventare giudice: il mio ambito di competenza cambierà e dovrò studiare tanto, ma si tratta di un lavoro fortemente collegiale, un coro in cui ogni voce è importante, ma sempre come parte d’un tutto, mentre confesso che l’aspetto ‘solista’ della carriera accademica mi è sempre appartenuto un po’ meno… Beh, comunque prima o poi vorrei proprio ricominciare a cantare».