Torna l’Antiracup Ticino, il torneo amatoriale contro il razzismo. Parole d’ordine: rispetto e convivialità. ‘Per far sentire tutti parte di una comunità’
Lo si capisce fin dal nome: l’Antiracup Ticino è un torneo di calcio che va ben oltre il rettangolo da gioco. A connotarne lo spirito contribuisce il volantino dell’edizione alle porte – la nona, dopo due anni di stop forzato – su cui campeggia la foto di Sócrates, il centrocampista brasiliano capitano della Seleção ai Mondiali dell’82 che nelle interviste amava molto più parlare di giustizia e libertà che di sport. Un medico col nome da filosofo che osò sovvertire l’autoritarismo dei club professionistici per dar vita alla Democracia Corinthiana, squadra autogestita che assurse a simbolo politico per le fasce popolari di una nazione sotto il giogo della dittatura militare. Celebre lo striscione che ne accompagnava gli incontri: "Vincere o perdere, ma sempre con democrazia". Si rifà al modello di questi tratti distintivi l’essenza dell’Antiracup Ticino, un evento amatoriale sorto sull’esempio dei Mondiali antirazzisti italiani e di altri tornei analoghi sviluppatisi nel tempo anche in alcune città svizzere. Nel 2012 un gruppo di giovani ticinesi reduce da qualche trasferta decise di fondare l’associazione ‘Un calcio al razzismo’ (Ucar) e di indire la prima Coppa sul genere a livello cantonale. Altre poi ne seguirono su iniziativa del Centro sociale Il Molino e degli organizzatori del ‘Primo di agosto senza frontiere’.
L’appuntamento è per sabato 23 luglio, dalle 11, al campo di calcio di Gudo.
«L’obiettivo dell’Antiracup è di unire in un momento di sport ma soprattutto di convivialità diverse realtà, promuovendo l’inclusione non solo a parole ma anche con i fatti – spiega Nicole, membro di Ucar –. Con questo torneo vogliamo schierarci apertamente contro ogni tipo di razzismo e far sentire parte di una comunità le persone migranti e in particolar modo i rifugiati che partecipano. È un aspetto a cui teniamo molto dato che spesso queste persone vivono una quotidianità segregata e molto divisa dal resto della popolazione». A questo proposito, motivo di soddisfazione – evidenzia Nicole – è la significativa presenza della società civile. «Quando apriamo le iscrizioni non rispondono all’appello solo associazioni che hanno a che fare con l’ambito della migrazione, ma anche tante squadre per così dire "da bar", composte da amici, colleghi, frequentatori di curve o gradinate sportive». Scorrendo la lista delle trenta presenti quest’anno, l’aspetto goliardico non manca: Punkinari, Bellis perennis, Radar united, Banda Armanda. I più ambiziosi puntano alla coppa di legno che di anno in anno passa di mano tra i vincitori, altri invece ai premi dei migliori peggiori, della divisa più meritevole o del tifo più scatenato. «C’è grande divertimento – conferma Nicole –. Le dinamiche che si creano sono ottime. E non solo tra i giocatori che, in assenza di arbitro, si sfidano all’insegna del fairplay. Ma anche tra chi viene a dare il proprio supporto alle squadre o semplicemente a trascorrere una bella giornata e una serata in compagnia». E in un contesto "popolare", come riporta il volantino. «Esatto, popolare per gli aspetti appena citati ma pure nel senso che l’evento è pensato in modo da essere accessibile a tutti anche dal punto di vista dei prezzi di bibite e cibo che cerchiamo di tenere i più bassi possibile. Siamo indipendenti – puntualizza Nicole –, non abbiamo sponsor e nessun tipo di sostegno finanziario esterno, tutto quello che incassiamo lo usiamo per coprire le spese del torneo, e se avanza qualcosa per supportare progetti legati all’antirazzismo».
Ma si può davvero parlare di un problema di razzismo alle nostre latitudini? «Sì – sostiene con convinzione Camillo, anche lui membro di Ucar –. Esiste, così come nel resto della Svizzera e del mondo». Camillo punta il dito in particolare contro il razzismo «insito nella struttura statale e nelle sue istituzioni. E non siamo sicuramente noi i primi a denunciare questo fenomeno». Sul portale della Confederazione, alla voce ‘Servizio per la lotta al razzismo’ si trova scritto che "il primo passo nella lotta alla discriminazione razziale consiste nell’ammettere che questa esiste sul piano strutturale, istituzionale e individuale". Il razzismo si declina dunque in più modi e su molteplici livelli, «alcuni visibili e altri meno – evidenzia Camillo –. Ad esempio con l’arrivo delle persone fuggite dalla guerra in Ucraina si è vista chiaramente la distinzione compiuta tra questi rifugiati, per cui giustamente ci si è subito adoperati per trovare alloggi confacenti alla dignità umana, e altri tipi di richiedenti l’asilo, perlopiù provenienti da paesi non europei, alcuni dei quali fino a poche settimane fa vivevano addirittura rinchiusi sottoterra in un bunker a Camorino in condizioni vergognose, mentre molti ancora adesso si trovano confinati e in regime di sorveglianza nei Centri d’asilo. Anche per quanto riguarda il lavoro, al contrario degli ucraini che col rilascio del permesso S possono cercare impiego ed essere assunti, molti altri migranti non hanno la stessa possibilità, quando proprio il lavoro può essere uno strumento che aiuta queste persone ad affrancarsi dallo Stato, nonché ad allacciare rapporti di amicizia e integrarsi».
Camillo porta altri esempi locali: «Negli ultimi anni con diverse sentenze il Tribunale federale (Tf) ha bacchettato più volte la politica dei permessi adottata in Ticino. Corrente era la pratica di non rinnovarli o di revocarli a chi possedeva quelli di tipo B e C e percepiva assegni familiari o di prima infanzia. Sempre nel solco della stretta sui permessi, durante diverso tempo in Ticino per il rinnovo del B ci si è basati sul criterio del ‘centro di interessi’, poi sconfessato dal Tf. Per accertarlo venivano compiuti appostamenti sotto casa e si arrivava perfino alla conta del numero di mutande nel cassetto. Insomma, era stata messa in piedi tutta una politica, in questo caso prevalentemente giuridica, per limitare il rilascio o il rinnovo di permessi a persone straniere di vario tipo. Solo dopo svariati richiami all’ordine da parte della massima istanza si è provveduto a un adeguamento alla giurisprudenza e alle leggi svizzere». Secondo Camillo non poche responsabilità nella normalizzazione di un clima razzista le hanno i politici. «Abbiamo un domenicale di partito che da quasi 30 anni attacca qualsiasi cosa straniera presente in Ticino, con titoloni in prima pagina del calibro di "Rom raus o campi di lavoro". Abbiamo parlamentari che paragonano le donne col burqa a sacchi della spazzatura». Su questi episodi riconducibili alla destra, recrimina Camillo, «le forze politiche che si dicono di centro o radicali perlopiù tacciono. Sembra che finché non si supera un’asticella parecchio alta, il razzismo sia accettato come parte integrante della società».
Tornando all’Antiracup, anche Camillo ribadisce che «lo scopo è affermare che nessuna forma di discriminazione deve trovare posto nel nostro paese e mostrare che un altro modo di parlare è praticabile. Se si arriva da posti diversi e da posizioni differenti per conoscersi bisogna innanzitutto avvicinarsi. E una delle maniere possibili per costruire ponti e legami è tramite lo sport. In questo torneo per tutta la giornata la lingua comune è quella del pallone e della condivisione di momenti, grazie a cui anche le distanze e le difficoltà di capirsi possono almeno per un po’ venire meno».
La conferma viene da Naser, tra i partecipanti di lungo corso all’Antiracup, che da anni allena la squadra ‘Sotto lo stesso sole’ composta da giovani rifugiati residenti nel cantone. «Aspettiamo sempre con impazienza questo torneo. È una bellissima occasione per i ragazzi di stare insieme tra di loro e con molta altra gente per una decina di ore. Si gioca, si mangia, si beve e ci si diverte in un ambiente amichevole. Si tratta di un esempio concreto e vivo di accoglienza». Il gruppo che si trova tutti i lunedì a Cornaredo per allenarsi è composto in totale da una quarantina di ragazzi tra i 16 anni e i 35 provenienti da svariate parti del mondo: Eritrea, Kurdistan, Siria, Iran, Afghanistan, Somalia. Una squadra internazionale, insomma. «Alcuni vivono nei Centri per richiedenti l’asilo, altri in appartamento, qualcuno lavora, qualcun altro va a scuola o fa uno stage» spiega Naser, che a sua volta era arrivato in Ticino oltre 20 anni fa dall’Iran come rifugiato politico. Nel frattempo ha ottenuto la cittadinanza. «Ai primi tempi – ricorda – andavo sempre a bordo campo a vedere gli altri che giocavano. Poi un giorno ho preso coraggio e ho chiesto a una persona che parlava inglese se potevo unirmi. Da lì si sono creati molti contatti, sono nati legami d’amicizia e a un certo punto ci è venuta l’idea di creare una vera squadra grazie all’aiuto di Sos Ticino e del Cantone. Da allora faccio l’allenatore di questi ragazzi rifugiati», oltre che, da sette anni, del settore giovanile del Rapid Lugano. «Lo scopo del progetto ‘Sotto lo stesso sole’ è quello dell’integrazione tramite lo sport. Il mio metodo di insegnamento si regge su tre principi: rispetto, puntualità, comportamenti corretti durante il gioco. Che sono anche alla base dell’Antiracup, dove tra l’altro è pure molto bello il fatto che non c’è l’arbitro e questo rappresenta un’ottima prova di autocontrollo per i ragazzi. Partecipiamo principalmente per divertirci e imparare – afferma Naser –, non per vincere». Anche se le premesse per farlo sono buone dato che nell’Albo d’oro il nome della squadra figura più di una volta.
Allenatrice di una squadra di bambine, Alicia, che si ripresenta per giocare al torneo quest’anno con un gruppo di colleghi, testimonia di un’altra forma di discriminazione che l’Antiracup contesta con convinzione, quella di genere. «Per bambine, ragazze e donne in generale, le possibilità e le opportunità rimangono ancora oggi inferiori rispetto a quelle maschili non solo dal punto di vista economico ma anche di spazio, di crescita, di supporto. E questo lo si vede pure con le barriere nella scelta dello sport – valuta l’allenatrice –. Nonostante il settore giovanile femminile sia in progressiva crescita, si tratta di uno sport che continua a essere visto come maschile, ciò che conduce le ragazze che desiderano praticarlo a dover fare astrazione da parecchi stereotipi ancora dominanti che le vogliono aderenti a determinati canoni. Ci sono ancora genitori che si chiedono "non si tratta di uno sport troppo violento?", sorprendendosi della scelta della figlia verso uno sport che ritengono magari adatto per il fratello ma non per lei. Ed è per questo che bisogna continuare a parlarne e sensibilizzare». Per fortuna, valuta Alicia, si stanno facendo dei passi in avanti. «L’impressione è che proprio il calcio sia una sorta di cartina al tornasole rispetto alla condizione delle donne all’interno della società. Se guardiamo agli Europei, tranne alcune eccezioni, i paesi dove il livello del calcio femminile è più alto corrispondono a quelli dove anche nel lavoro le condizioni delle donne sono migliori, in particolare penso alle nazioni del Nord». In fondo, secondo Alicia, il calcio ha due valenze: «Da un lato le discriminazioni di genere e razzismo esistono e sono molto pregnanti all’interno di questo universo. Però al contempo è anche uno strumento di inclusione. E il bello dell’Antiracup è che mette insieme trasversalmente differenti lotte e rivendicazioni. Si nota dall’attenzione posta nel linguaggio e dalla capacità di unire persone che provengono da diversi contesti, con esperienze e background differenti. Mi ricordo in particolare di una finale a Lumino in cui a un certo punto era uscito un grande arcobaleno. Penso possa essere questa l’immagine più adatta a rappresentare il senso dell’evento».