La sentenza su uno dei filoni dell’inchiesta italiana contro la ’ndrangheta che aveva portato anche ad alcuni arresti in Svizzera
Sessantacinque condanne per oltre seicento anni di carcere. Questa in sintesi la sentenza del filone in ‘abbreviato’ della maxi operazione ‘Imponimento’ contro i clan ’ndranghetisti del Vibonese: 147 gli indagati, cui una ottantina arrestati nel luglio 2020, beni per 170 milioni di euro sequestrati, in parte anche in Svizzera. A un anno e mezzo del blitz primo importante verdetto in un altro maxi processo istruito dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri.
La sentenza, pronunciata nei giorni scorsi dal gup distrettuale Francesco Rinaldi, ha accolto le richieste di condanna formulata nel dicembre scorso dal procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla e dai sostituti Antonio De Bernardo e Chiara Bonfandini, incominciando dai 20 anni (la condanna più pesante) inflitta a Rocco Anello, 59enne capo dell’omonima cosca di Filadelfia, sbarcato in Svizzera nel 2003, dove si è creato un impresa, grazie alla collaborazione di numerosi calabresi, fra cui uno residente a Grancia, arrestato il 15 giugno dello scorso anno e per quanto è dato sapere ancora in attesa di estradizione, chiesta dalla magistratura calabrese. Undici anni e due mesi sono stati inflitti ad Antonio Luciano Galati, 25enne originario di Lamezia Terme, residente a Oftringen (Canton Argovia). L’accusa aveva chiesto la condanna a dieci anni.
Associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti e di armi, riciclaggio, intestazione fittizia di beni, corruzione, estorsione con l’aggravante della mafiosità, turbativa d’asta, truffe e reati ambientali le accuse che a vario titolo hanno portato alle 65 condanne. Le richieste di condanna si erano basate sulla corposa ordinanza di custodia cautelare (oltre 4mila pagine) e sul racconto di numerosi pentiti, fra cui Gennaro Pulici, personaggio molto conosciuto in Ticino, dove per un paio d’anni ha operato a Lugano, arrivato per riciclare oltre 50 milioni di euro. Soldi che gli erano stati affidati da cosche del lametino. Traffico internazionale e armi e riciclaggio sono reati radicati alla presenza di Rocco Anello in Svizzera.
Intestazione fittizia di beni è l’accusa contestata al calabrese residente in Ticino, che in diverse occasioni ha incontrato il boss ’ndranghetista in riva al Ceresio. Incontri ammessi: “Rocco Anello è un mio amico, per cui quando veniva in Svizzera lo incontravo”. La presenza da Rocco Anello in Svizzera è stata puntualmente illustrata durante la requisitoria da cui era emerso come il boss di Filadelfia, nel corso degli anni, aveva allargato i propri orizzonti e i confini criminali oltre confine. I primi segnali di questo allargamento erano arrivati dall’inchiesta ‘Gentleman’ condotta dalla Dda di Catanzaro, culminata l’11 marzo 2015 con l’arresto di 32 persone, e dalla quale erano emersi alcuni contatti telefonici tra Rocco Anello e due fratelli indicati come contatti, residenti uno nel Luganese, l’altro nel Canton Argovia. L’accusa si è soffermata sugli interessi della cosca di Filadelfia in Svizzera: traffico di armi e droga, spaccio di moneta falsa (soprattutto banconote da 50 euro), gestione di attività commerciali (ristoranti, bar e night club) e traffico di valuta (dalla Svizzera alla Calabria). Degli affari sporchi del clan Anello nella Confederazione elvetica si è iniziato a parlare nel 1998 in una inchiesta in cui Rocco Anello risultava implicato in un traffico di armi dalla Svizzera alla Calabria.
Nel frattempo a Lamezia Terme continua il processo nei confronti di 75 imputati che non hanno scelto il rito abbreviato. Fra loro quattro calabresi, residenti nel Canton Argovia, accusati di aver avuto importanti ruoli nei traffici sporchi di Rocco Anello.