Ticino

Procuratori pubblici, non è solo una questione di numeri

‘Limitarsi ad aggiungere forze non è la soluzione. Qualche proposta: un‘età minima per diventare magistrati e audizioni pubbliche dei candidati’

L’avvocato Edy Salmina (Ti-Press)
18 gennaio 2022
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Dunque, la situazione della giustizia ticinese, parlo di quella penale, parrebbe questa. Una sentenza ha recentemente smentito il Consiglio della magistratura proprio in relazione all’esercizio corretto del suo primario compito di vigilanza. L’istituzione che nomina i magistrati, il parlamento, li designa suscitando interrogativi e polemiche ricorrenti non utili alla credibilità del sistema. Il perno del meccanismo penale, il Ministero pubblico, soffre di un’instabilità di organico che, da sola, dice quasi tutto. Negli ultimi 10 anni sono se non erro stati ben 19 i procuratori che, per un motivo o per l’altro, hanno smesso di svolgere la loro funzione. Siccome i pubblici ministeri erano fino a poco fa in totale 21 è un avvicendamento quasi completo, un “turn-over” credo senza paragoni in altri settori della giustizia o del pubblico impiego. Un salasso più che un ricambio, e pensare che la Costituzione ticinese prevede nomine decennali proprio anche per stabilizzare le magistrature. Volendo chiamare le cose con il loro nome abbiamo davanti il quadro di una vera sofferenza della giustizia penale. Detto questo, che fare? Anzitutto, non cercare di dare le colpe a qualcuno giacché è proprio il caso di dire che chi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma se nessuno è esente da responsabilità la situazione, paradossalmente, è propizia per una riflessione comune.

Indipendenza, da cosa?

Cosa minaccia l’indipendenza della giustizia? Si citano spesso i partiti ma chiunque lavori oggi nella o con la giustizia sa benissimo che l’ultimo dei problemi è la casella politica di chi investiga, viene investigato o difende. Particolarmente nella fase dell’indagine l’indipendenza passa oggi da tre elementi centrali. Il primo è la competenza che, per molta parte, è avere un metodo per conoscere che sia all’altezza dei temi da conoscere. In un tempo complesso e multidisciplinare come il nostro, decidere bene significa prima di tutto decifrare bene: vale ovunque ma particolarmente per chi fa il difficile lavoro dell’inquirente. Valutare le competenze è arduo ed è quindi decisivo cercarle con rigore e trasparenza. Lo si fa oggi in modo ottimale? Il secondo presidio è l’organizzazione perché se si è sommersi o perennemente in affanno la serenità richiesta o è un lusso o è un caso. Un ufficio giudiziario sovraccarico è un po’ come un corpo malato, soffre ma contemporaneamente manda segnali utili alla cura.

Dall’osservazione di cosa non funziona nascono, infatti, alcuni dei rimedi di cui si parla da tanto: discutere e rispettare priorità, distinguere urgenza e importanza, creare e sfruttare sinergie, standardizzare quanto può esserlo, non disperdere ma accumulare le competenze, digitalizzare ogni possibile passaggio, ottimizzare i supporti amministrativi o tecnologici. Senza dimenticare, anzi, la necessità di garantire la compatibilità tra il lavoro e la famiglia e, negli ambiti più delicati, anche tra l’attività inquirente e il grande carico emotivo a cui espone. Non siamo al punto zero, giusto dirlo, ma tanto resta da fare e la storia recente (leggi la tormentata rielezione dei procuratori pubblici a fine 2020) non aiuta. Il che non significa che non servano anche più risorse, anzi, ma il solo aggiungere forze non è la soluzione.

L’indipendenza, ed è il terzo punto, è oggi insidiata da quello che qualcuno ha già descritto come il rischio della “socializzazione dei procedimenti”, effetto congiunto di mediatizzazioni diffusive, reti sociali, strategie comunicative delle parti, politicizzazione delle procedure e giustizialismi vari. Nella nostra società iperconnessa la comunicazione è diventata molto più di un quarto potere e deve quindi valere particolarmente nei suoi confronti il famoso “resistere, resistere, resistere” dell’ex procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli. Un tema enorme e non solo locale, ovviamente, e chi lavora nella giustizia (inserisco, per la sua parte di responsabilità, anche la categoria forense) deve esserne ben conscio sennò, come le scienze sociali insegnano, è destinato a essere la prima vittima di ciò da cui si reputa immune. Non ci sono rimedi miracolo ma passare dalla rimozione alla vigile consapevolezza del problema è decisivo. Ho fatto questi tre esempi, altri ce ne sarebbero, per dire una cosa semplice: garantire l’indipendenza della giustizia significa anche scegliere persone, metodi e risorse all’altezza delle insidie di oggi.

Il sistema di nomina: un paio di idee

Storicamente, il sistema attuale nasce dall’idea che il partito di appartenenza del magistrato (o, se si preferisce, la sua visione del mondo) possa influenzarne le scelte. Dunque, l’equilibrio complessivo delle decisioni si garantirebbe anche equilibrando partiticamente la magistratura. Un criterio criticato da pochi, ad esempio dal prof. Marco Borghi in un bel testo dell’ormai lontano 2006. Come ho cercato di mostrare, il tema dell’indipendenza si pone oggi in altri termini, eppure il modo di elezione è immutato. Sul tavolo ci sono molte proposte: elezione popolare, designazione da parte del Consiglio di Stato, scelta del Gran Consiglio solo dei vertici della Procura pubblica, status quo plus con maggiore spazio a varie istanze di esperti, modello federale con il capo della Procura scelto dal parlamento e gli altri inquirenti designati da lui stesso. I vari sistemi evocati, esattamente come l’attuale, hanno pregi e difetti ma nessuno, comunque, può funzionare senza il supporto di una vera cultura della responsabilità da parte di chi decide.

Detto questo, e posto che l’elezione popolare sarebbe, secondo me, il classico rimedio peggiore del male, suggerirei di ragionare non a partire dalla nomina (chi decide) ma dal metodo (come decide) e da ciò precede e condiziona la scelta (chi e perché si candida). La procedura giusta, o la meno sbagliata, è allora quella che valuta in modo migliore le candidature e stimola le persone più adatte a farsi avanti. Quale è il metodo più idoneo? Probabilmente quello che massimizza le chances di scegliere i talenti e minimizza, per chi si mette in gioco, gli effetti negativi di un’eventuale non designazione. Le aziende moderne sanno bene che i profili di valore non si attendono ma si stimolano e anche nell’ambito di cui parliamo, se non si cura questo aspetto, il sistema, l’attuale come ogni variante, tenderà a giustificare la qualità delle scelte con la qualità dei concorrenti. Eccezioni ci sono state e ci saranno, ma restano tali.

Butto lì due idee. La prima è ragionare su un’età minima per diventare magistrati, una professione dove la maturità non nuoce e che si può comunque svolgere fino a 70 anni. Se un criterio anagrafico fisso dovesse sembrare troppo rigido poco male, capisco la difficoltà della cosa, l’importante è perlomeno essere consapevoli dell’importanza del fattore esperienza per la valutazione delle candidature. Secondo scenario: rendere pubbliche le audizioni dei candidati davanti alle istanze ufficiali di valutazione, immaginando ovviamente le opportune regole o eccezioni. Mi pare, questo, un ambito adatto alla trasparenza di cui si parla spesso.

Un problema di cultura

Della giustizia scriveva mirabilmente Aristotele che “né la stella della sera, né quella del mattino sono così meravigliose”. Lo stato di diritto di ispirazione liberale è il primo e unico tentativo, riuscito, di trasformare questa “stella” in istituzioni e leggi che garantiscano l’equità e proibiscano la prepotenza. Certo, siamo assai lontani dalla perfezione ma mai la giustizia è stata garantita quanto lo è oggi nelle democrazie occidentali. Nessuno, credo, dissente sul principio, ma quando si passa al concreto, ad esempio alla scelta dei magistrati, lo stato di diritto sembra diventare un dato remoto e scontato mentre è invece il terreno su cui si gioca la partita anzi, in ultima analisi, è la stessa posta in palio. Certo, le singole designazioni non modificano tutto il quadro ma ognuna di esse ha un impatto sull’intero quadro. Entrano naturalmente in gioco anche tanti altri e apparentemente piccoli fattori: gli esempi personali, il senso della misura e della responsabilità di ognuno, l’attenzione per l’immagine delle istituzioni, le scelte amministrative. Faccio un paragone con un altro pilastro della vita sociale, la scuola: se si sbaglia è poco il rumore percepibile al momento ma molti i danni arrecati alle successive generazioni.

Il sistema giustizia, questo il rischio vero, non corre il pericolo di esplodere, vale a dire smettere di funzionare. Piuttosto di implodere, togliendo via via a chi lo fa muovere (magistrati, segretari giudiziari, funzionari di polizia, personale amministrativo ma anche, per la loro parte, gli avvocati) ciò che davvero è indispensabile: la motivazione verso l’interno e l’autorevolezza verso l’esterno. Rimarrà allora, certo, il minimo necessario al galleggiamento, ma in un mondo complesso, competitivo e veloce è troppo poco per non affondare pian piano. Possiamo permettercelo mentre tutti dicono che la giustizia è un fulcro del sistema paese e della sua competitività? Quando già così tanti generatori di fiducia sono in crisi e il rispetto delle regole minacciato da individualismi, vittimismi e rancori di ogni tipo?