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101 misure, 25 anni e due diverse interpretazioni

In occasione dell’anniversario masoniano mettiamo a confronto il suo ’capocantiere’ Sergio Morisoli e l’economista Sergio Rossi

(Ti-Press)
4 maggio 2021
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Sono passati 25 anni tondi dalla presentazione delle 101 misure per il rilancio economico del Ticino di Marina Masoni. A molti di noi sembra ieri: a destra tra chi ritiene l’indirizzo del ‘meno Stato’ come ancora valido e vitale, ma ancora irrealizzato; a sinistra perché quei provvedimenti sono visti come l’inizio di un ‘discorso neoliberista’ che sarebbe ancora dominante dentro e fuori il Dipartimento delle finanze e dell’economia (Dfe). Segno che è utile tornare a riflettere su quell’epoca per capire dove potremmo andare. Lo facciamo con Sergio Morisoli, all’epoca segretario generale del Dfe e secondo molti eminenza grigia del progetto (ma lui preferisce «capocantiere»), e Sergio Rossi, professore di macroeconomia ed economia monetaria all’Università di Friburgo.

Anzitutto, di cosa stiamo parlando?

Morisoli: Di una serie di provvedimenti nati dalla necessità di affrontare la dura crisi economica che in quegli anni colpiva un po’ tutti i settori: immobiliare, finanziario, industriale, turistico. Si trattò di affrontare molti punti in sospeso sia all’interno dell’amministrazione che della società ticinese, realtà con le quali ci confrontammo apertamente per capire cosa potesse fare lo Stato. Optammo per misure che potessero rilanciare la competitività del cantone e risolvere l’enorme problema di una disoccupazione che sfiorava l’8%: ne realizzammo 81 (mentre 12 rimasero in corso d’opera e 8 furono scartate), dalle nuove leggi su occupazione e innovazione a quella per il rilancio del turismo, passando per la promozione del territorio come terreno di insediamento aziendale (Copernico), per farne una realtà variegata e non una monocoltura di industrie decotte. Queste misure compresero anche sgravi e competitività fiscale e certamente erano influenzate dalla volontà di rilanciare l’economia agendo sull’offerta, la cosiddetta ‘supply-side economics’, ma è sbrigativo liquidarle come neoliberiste. Coincisero peraltro con un netto miglioramento delle condizioni economiche del cantone, dal Pil all’occupazione, dalle esportazioni al gettito fiscale, dai nuovi posti di lavoro al salario mediano.

Rossi: Va però notato che causalità e correlazione sono cose diverse: dopo la crisi immobiliare scoppiata alla fine degli anni Ottanta, l’economia ticinese impiegò un decennio per riprendersi e lo fece soprattutto grazie agli accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione europea. E sebbene alcune delle 101 misure – come quelle sull’innovazione e sulla promozione economica – siano effettivamente interessanti, occorre notare che cosa abbia significato puntare così tanto sugli sgravi e sugli aiuti alle imprese: l’arrivo di realtà imprenditoriali che cercavano solo terreno fertile per operazioni fiscali corsare, poco sostenibili e tali da lasciare scarso valore aggiunto sul territorio. Troppo spesso poco più che capannoni, come abbiamo visto con certe realtà della moda. Nel frattempo, il settore bancario è stato poco stimolato ad agevolare investimenti in imprese innovative. Resta poi il fatto che prima dell’offerta occorre preoccuparsi della domanda nel mercato dei prodotti: se questa langue, anche le imprese hanno pochi incentivi a investire per il rilancio; un problema che vediamo bene anche oggi.

A quel periodo la sinistra imputa anche lo smantellamento del welfare. Su questo giornale, la granconsigliera socialista Anna Biscossa ha parlato martedì scorso di passaggio “dal diritto sociale implicito all’esercizio facoltativo di quel diritto”. Come dire che l’accesso ai sussidi è diventato una corsa a ostacoli.

Morisoli: Se ciò è accaduto non è certo stato durante quel periodo né a causa delle nostre misure. A parte il fatto che anche recuperare i 25mila posti di lavoro persi fu per così dire una forma di welfare, noi nello Stato sociale abbiamo investito ben più di prima: da 700 milioni l’anno siamo passati a 1'250. L’idea era – e nel mio caso resta – quella di rendere questi investimenti più proficui, non di ridurli. Per questo a suo tempo potenziammo il supporto alla riqualifica e al reinserimento professionale e coinvolgemmo realtà parastatali e private, capaci di fare quello che lo Stato non sapeva fare. Si trattava anche di maggiore equità: prima c’era chi collezionava sussidi e chi, magari più bisognoso, si trovava chiuso fuori. Nelle linee direttive di Governo inserimmo testuali parole – “crescita economica e lotta all’esclusione” – come uno dei capitoli portanti di legislatura.

Rossi: Il problema è che certe scelte di politica economica, prima o poi, portano giocoforza alla necessità di ridimensionare lo Stato sociale. Se si punta sugli sgravi fiscali si va infatti a incidere negativamente sul gettito, riducendo di fatto le risorse fiscali a disposizione per gli aiuti. A maggior ragione se nel frattempo si incoraggia un modo di fare impresa che ha portato dumping e un generale deterioramento delle condizioni di lavoro, e che spesso si è concluso con partenze d’imprese tanto repentine quanto il loro arrivo. Il risultato è stato non solo l’impoverimento delle casse pubbliche con scarse ricadute positive sul territorio, ma anche la progressiva stigmatizzazione di chi davvero non ce la fa e ha bisogno di un aiuto dallo Stato.

Uno dei concetti trainanti della politica economica di Marina Masoni pare essere stato quello della ‘distruzione creativa’ di cui parlava l’economista austriaco Joseph Schumpeter: permettere alle imprese innovative di sparigliare il mercato, tagliando fuori quelle obsolete ma creando così un’innovazione che attrae a sua volta – per via dei profitti – nuovi progetti imprenditoriali e dunque un maggiore benessere collettivo.

Morisoli: Si è trattato certamente di una delle idee ispiratrici. Però il nostro era uno Schumpeter con gli airbag: sapevamo che la distruzione ha i suoi pericoli nonostante la creazione che ne segue. Per questo volevamo creare un tessuto d’impresa a maglie molto fitte, tali che se saltava un nodo non si squarciasse l’intera rete. Ci sembrava comunque che fosse necessario cambiare dopo anni di pianificazione economica quasi sovietica, basata su settori obsoleti: non si poteva più vivere cucendo pantaloni per l’esercito o fondendo acciaio, mentre nelle aree industriali del cantone pianificate a tavolino crescevano le ortiche più alte di tutte. Anche perché vedevamo già che la globalizzazione portava a una fuoriuscita delle imprese che puntavano sulla manodopera a basso costo. Per questo abbiamo cercato di attrarre altre realtà, come quelle della meccanica di precisione e dell’elettronica, dei poli della logistica e di ricerca che effettivamente sono poi cresciute sul territorio: con 360 milioni di aiuti diretti – attraverso nuove leggi settoriali – abbiamo attratto investimenti privati per 2,6 miliardi.

Rossi: Tuttavia il rinnovamento del tessuto economico è rimasto superficiale e poco sostenibile. E si dimentica il ruolo che Schumpeter assegnava alle banche, che nella sua idea dovrebbero finanziare e sostenere quell’innovazione. Non mi pare che ciò sia davvero successo. Oggi come allora la piazza finanziaria ticinese continua a sostenere pochissimo, ad esempio, i giovani che escono da un’università con un’idea in testa e vorrebbero realizzarla. Si predilige l’investimento finanziario, che piace tanto alle banche quanto alle imprese quando certi sgravi ne massimizzano i profitti e reinvestirli non avrebbe più senso, data la domanda ridotta di beni e servizi.

Già, le banche. Una delle poche misure a loro dedicate riguardava la difesa del segreto bancario, finito com’è finito. Da sempre dipendente dall’evasione fiscale in arrivo dall’Italia ma povera di competenze avanzate, la piazza finanziaria ticinese stenta ancora a trovare un ruolo innovativo.

Morisoli: In realtà, abbiamo lavorato molto con BancaStato e altri istituti proprio per agevolare le fideiussioni a imprese innovative e i crediti al turismo. Bisogna poi ricordare il contesto di quegli anni, con le grandi banche che facevano fusioni e acquisizioni a più non posso, tagliando moltissimi posti di lavoro. Rispetto a questo e ad altri problemi urgenti le 101 misure erano un intervento di pronto soccorso, non una terapia di riabilitazione. Il fatto che poi la direzione suggerita da quelle misure – ed elaborata con maggior respiro in un lavoro mai digerito né dibattuto dalla politica ticinese come il ‘Libro bianco’ – non sia stata seguita, corretta e aggiornata negli anni successivi, dipende molto da chi è arrivato dopo di noi. Nel frattempo sono trascorsi 14 anni… 

Saltiamo all’oggi. Tra debolezze strutturali e spallate pandemiche, il Ticino si trova ancora una volta in una congiuntura difficilissima. Stavolta però si direbbe che il paradigma neoliberista mostri la corda, e che per salvare il salvabile si punti anzitutto, almeno a parole, sull’investimento pubblico e su un rinnovato ruolo dello Stato nell’economia. Com’ebbero a sbuffare Milton Friedman e Richard Nixon, ora siamo tutti keynesiani?

Rossi: Ora si direbbe che anche i neoliberisti si siano convertiti alla difesa dell’intervento pubblico. Di Keynes però ci si dimentica troppo spesso una cosa: all’intervento anticiclico dello Stato, ovvero alla necessità di investimenti pubblici per combattere le recessioni, accostava la necessità nel lungo periodo di rientrare da quell’indebitamento fornendo una prospettiva di crescita sostenibile. Paradossalmente sono proprio gli ‘austeristi’ che rischiano di ignorare questo aspetto, invocando già dopo i salvataggi delle imprese un immediato passaggio a una politica di sgravi fiscali, combinata col rientro a passi forzati delle casse pubbliche nelle cifre nere. Col prevedibile risultato di colpevolizzare poi lo Stato stesso per i suoi debiti, e tornare a ridurne le funzioni. Mentre basterebbe vedere la storia di internet o delle energie rinnovabili per capire che occorre sempre più quello che la collega Mariana Mazzucato chiama “Stato imprenditore”, capace di dare una direzione chiara e sostenibile all’economia anche attraverso interventi diretti e non solo lavorando sulle condizioni quadro.

Morisoli: Si tratta di capire di che Stato parliamo. Già nel Libro bianco suggerivamo un suo ruolo fondamentale, ma di carattere “intensivo” invece che “estensivo”. In modo cioè che gli investimenti non siano fatti a pioggia ma con criteri di crescita e di irrobustimento strutturale dell’economia, assegnando all’autorità pubblica il ruolo di garante del patto di comunità che implicava “scommesse forti”, ma con solidarietà e collegialità, per passare dallo Stato sociale per pochi allo Stato della crescita per tutti. Durante gli anni di Marina Masoni il Piano di investimenti quadriennali dello Stato passò da 800 milioni netti a 1'200, eppure i dipartimenti non riuscivano neppure a spendere tutti quei soldi. E poi per gestirli in modo lungimirante occorre prima ridefinire il concetto stesso di investimenti (hard e soft) e serve anche un consenso politico che non vedo, se non come forma di accordi a brevissimo termine ancorati all’edilizia.

Rossi: Su questo siamo d’accordo, come sul fatto che in passato abbiamo assistito a molti esempi di abusi e clientelismo in Ticino, mentre i cervelli continuano a fuggire e il tessuto economico appare sempre più fragile. Questo dipende però anche da uno Stato che ha rinunciato alla sua progettualità ‘appaltandola’ ai privati, illudendosi che bastino gli sgravi e il fatto di accontentare i loro interessi, erroneamente confusi col bene comune. Intanto la ricerca del consenso politico per una vera direzione programmatica è effettivamente venuta meno, tanto che oggi non ci sono in cantiere molti progetti che possano trarre il massimo dall’investimento pubblico.