Il presidente della Federazione ticinese Fulvio Biancardi: "I frontalieri devono stare alla legge. Sta al Consiglio di Stato eventualmente permetterlo"
Una tempesta in un bicchiere d'acqua. È questa in sintesi l'opinione di Fulvio Biancardi, presidente della Federazione ticinese di calcio, dopo lo sfogo di una mamma stizzita per alcuni giocatori con targhe italiane sul campo di calcio del figlio. «Fondamentalmente il problema sta nel manico – evidenzia il presidente nell'intervenire nella polemica –. E cioè: chi esce di casa in Lombardia o in Piemonte, ultimamente zone rosse, deve farlo unicamente per motivi di comprovata necessità, fra cui lavoro e salute. Non sicuramente per andare a divertirsi e fare sport, questo dev'essere chiaro. Dunque, sono loro che devono rispettare la proibizione. In Ticino, per contro, dovrebbe essere di competenza del Consiglio di Stato o della Polizia cantonale la necessità di intervenire per ricordare agli italiani che non è possibile farlo. Nasce, dunque, un problema da un punto di vista politico e di sicurezza pubblica proprio perché le regole che vigono per i frontalieri che vengono da noi a lavorare sono queste: non sono autorizzati a svolgere nessun'altra attività qui in Ticino se non quella lavorativa, punto. Questa è l'interpretazione giuridica che mi permetto a titolo personale di dare. Poi, come detto, sta alle autorità cantonali decidere se possono o non possono; non è competenza della Federazione ticinese di calcio, dove, va comunque ricordato, queste persone sono tesserate come giocatori o allenatori, peraltro ne abbiamo anche di bravi e preparati. Non è dunque la legittimazione sportiva in questo periodo delicato a dover valere ma quella giuridica».
Sono diversi, infatti, gli iscritti di cittadinanza italiana tanto nelle categorie giovanili quanto in quelle minori. Mancasse il loro apporto non sarebbe in pericolo l'attività di alcune società o squadre? «Questo è corretto – risponde ai nostri interrogativi Biancardi – è una riflessione che abbiamo già fatto in comitato. Ma chi è causa del suo mal pianga se stesso... Se uno per riuscire a mettere in piedi una squadra deve avere dieci frontalieri probabilmente c'è qualcosa che non funziona. Noi dobbiamo spingere per la formazione rispettivamente per dare la possibilità di giocare e svagarsi per i nostri cittadini, non è evidentemente lo scopo della Federazione svizzera di calcio o della Lega amatori, che insieme promuovono i movimenti di base e i movimenti amatoriali, decidere se possono comunque entrare in Svizzera o meno... Con tutto il rispetto dei frontalieri, che vengono qui a lavorare e vivono con noi, le restrizioni vanno accettate e se vi saranno dei problemi lo saranno per chi li ha arruolati...». Del resto, attualmente, sono già in atto limitazioni anche nel nostro cantone: «Vi sono datori di lavoro che impediscono ai propri dipendenti di andare ad allenarsi per evitare contagi, anche ai ticinesi, il problema è dunque uniforme – non manca di ricordare il nostro interlocutore –. Invertendo però il problema, e va detto anche questo, è vero che vi può essere una squadra di bambini dove l'allenatore è un frontaliere che mette a disposizione del suo tempo con impegno e competenza. E se non può venire ad allenarli chi li allena? La mamma che ha scritto la lettera aperta? Questo è quindi un problema che deve affrontare la società o il raggruppamento allievi di turno, magari con una sostituzione che non è difficile comunque da fare».
Un dato quindi è certo: solo chi opera nel calcio professionistico e semi professionistico ha la possibilità di varcare il confine, come dovrebbe aver indicato la Prefettura di Como, secondo una nota del settore giovanile del Football Club Lugano: «A livello di calcio amatoriale però non mi risulta – rimarca Biancardi –. L'Associazione svizzera di football non l'ha mai detto. Se ognuno si fa le proprie regole c'è qualcosa che non va... non è il Football Club Lugano che può e deve dettarle. Resta una questione di ordine pubblico e di applicazione delle normative, nulla di più».