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Viceprimario a La Carità: 'Contento di essere stato chiamato'

Il racconto dell'emergenza coronavirus nelle parole di Giuseppe Allegranza, medico nell'ospedale "Covid-19" di Locarno

Giuseppe Allegranza
10 aprile 2020
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Chissà cosa dev’essere, fare il medico in uno di quei reparti. È una domanda che ci siamo fatti più o meno tutti, vedendo camici e mascherine alla tivù, intenti ad accudire i malati di coronavirus. Lo chiediamo a Giuseppe Allegranza, viceprimario di medicina interna alla Carità di Locarno, venuto giù dalla relativa quiete degli ospedali di Acquarossa e Faido – dei quali è primario – per dare una mano nell’emergenza. «Quando mi hanno chiamato, sono stato contento. Già nei giorni precedenti, vedendo l’evoluzione dei casi, quasi mi dispiaceva non poter essere d’aiuto. E quando poi sono arrivato a Locarno mi ha stupito come fossero riusciti a riorganizzare tutto in modo così rapido».

Molte incognite

Poi, però, «è chiaro che questo virus ha qualcosa che spaventa, anzitutto i pazienti. In particolare il fatto che il suo decorso sia difficile da prevedere. E poi, come stiamo capendo col passare del tempo, la polmonite è solo uno dei suoi effetti: ci sono persone che sviluppano problemi al cuore, ai reni, embolie e trombosi. Mentre altri contagiati quasi non se ne accorgono». Poi, dietro ai tubi e ai malanni, ai numeri e alle complicazioni, ci sono i singoli individui. «Una cosa che spaventa sempre è quando manca il respiro. Mi ha colpito un paziente della mia età, 52 anni, sano. Magari si pensa che certe cose tocchino solo agli anziani e a chi è già malato: invece anche lui, così determinato e positivo, lo abbiamo dovuto intubare. Mi ripeteva sempre: ‘spero di guarire, spero di guarire’. Ora è stabile, penso che ce la farà. Ecco: mi piacerebbe reincontrarlo».  Come di certo reincontrerà «un altro paziente, ottantenne, con tanti problemi al cuore e ai polmoni. Ma molto legato alla vita, sempre positivo. Anche lui come me viene dalla Valle di Blenio. Io sinceramente non credevo che ce la facesse, e invece è già tornato a casa. Prima di andare via mi ha detto: ‘ci rivedremo su’».

Da Dangio, Allegranza è sceso per sobbarcarsi turni da dodici o tredici ore, sei giorni su sette. All’apice dell’emergenza si è trasferito in un albergo a Locarno, messo a disposizione dall’Ente ospedaliero cantonale per i frontalieri e per chi viene da lontano. «A dire il vero, oltre a risparmiarmi un lungo viaggio, è stata anche un’occasione per dedicare le serate a leggere e studiare di più su questa epidemia. Ci sono così tante incognite che bisogna aggiornarsi continuamente». Ora, comunque, «si direbbe che le cose si siano un po’ calmate».

Considerate le necessità di isolamento dei pazienti, anche ai medici tocca il ruolo di ponte tra chi è chiuso dentro ai reparti e chi invece ne è chiuso fuori: la famiglia. «Informiamo i congiunti ogni giorno», spiega Allegranza. «In molti casi è possibile anche organizzare videochiamate con chi è ricoverato. Se la situazione si deteriora, è necessario prepararli al peggio. Eventualmente permettere un’ultima visita, con le dovute precauzioni». Per queste relazioni, e per comunicare una morte, «siamo aiutati da psicologi e cappellani. Sono cose alle quali un medico deve abituarsi, ma naturalmente in questo momento sono più frequenti e intense». 

Primum non nocere

Un altro momento difficile è quello della scelta: trasferire in terapia intensiva, che spesso vuol dire intubare il paziente per diverse settimane, oppure no? C’è speranza, oppure procedere con la terapia intensiva sarebbe solo un accanimento terapeutico? «Non è mai facile. Per questo occorre sempre avere ben presenti i principi bioetici fondamentali: fare il bene, non fare il male, rispettare l’autonomia di scelta del paziente ed essere giusti, ovvero trattare tutti con equità». Anche così, però, non è sempre tutto o bianco o nero: «Per questo sono fondamentali le riunioni con tutto lo staff, per decidere dei casi più difficili. La condivisione è fondamentale, anche per sopportare la pressione della scelta».

Scelta ardua, che basterebbe da sola a giustificare gli applausi rivolti al personale sanitario lungo le strade del cantone. Ma gli applausi non bastano. «Ci fanno molto piacere, e meritano un ringraziamento speciale. Quando però questa crisi sarà passata, bisognerà ricordarsi dell’importanza di avere un sistema sanitario autosufficiente. Ancora oggi, col numerus clausus ad esempio, ci troviamo a dover dipendere da medici e personale sanitario dall’estero. Bravissimi professionisti, che però stiamo sottraendo al paese d’origine. Servono più medici, più infermieri formati in Svizzera, per il bene di tutti. E serve mantenere quella capacità di riorganizzarsi nell’emergenza che invece, lo abbiamo visto, siamo stati in grado di garantire da un giorno all’altro: un punto a favore di un ente ospedaliero multisede».

Quanto al futuro dell’epidemia, Allegranza è ottimista, ma avverte: «Occorre continuare a rispettare le regole igieniche e di condotta. Altrimenti nulla esclude una seconda ondata di contagi, un secondo picco. Non sappiamo nemmeno se, come altri  virus, anche il Covid-19 sarà depotenziato dalle temperature estive. Quindi dobbiamo continuare a fare tutti attenzione. Molta attenzione».

 

 

 

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