Condannati alle Assise criminali di Mendrisio tre uomini fermati a Chiasso con pistole scacciacani e passamontagna. Tra loro un personaggio già conosciuto
Erano diretti a Vaduz per rapinare di sei milioni di euro un imprenditore italiano che opera nel commercio dell'acciaio. La loro corsa, a bordo di un'auto noleggiata, si è però interrotta a Chiasso, grazie a un controllo casuale delle Guardie di confine. Nel baule dalla macchina sono stati rinvenuti pistole scacciacani senza il tappo rosso, passamontagna, berretti e maschere in lattice. Davanti alle Assise criminali sono comparsi i tre uomini fermati il 6 maggio di quest'anno, tre cittadini italiani di 76, 34 e 67 anni, che il giudice Siro Quadri (a latere Chiara Ferroni e Werner Walser) ha riconosciuto colpevoli di atti preparatori punibili di rapina e infrazione alla Legge federale sulle armi e sulle munizioni. Il trio è stato condannato a 26 mesi di detenzione, di cui 20 sospesi per un periodo di prova di quattro anni, ed è stato espulso per sette anni dalla Svizzera. La Corte ha ritenuto corretta la proposta di pena formulata dalla Procuratrice pubblica Margherita Lanzillo in accordo con gli avvocati Simone Beraldi, Walter Zandrini ed Enrico Germano.
La cronaca del processo – gli imputati hanno ammesso interamente i fatti – potrebbe esaurirsi qui. Ma è bastato ascoltare i racconti e digitare sul web il nome dell'imputato più anziano per capire che l'uomo non è un personaggio sconosciuto alla giustizia, sia svizzera che italiana. Il 76enne ha infatti trascorso circa 40 anni in carcere e si è ‘guadagnato’ vari articoli sulla stampa di oltreconfine. È per esempio stato descritto come ‘rapinatore cortese’, ‘novello Robin Hood’ o ‘la leggenda del buon rapinatore’, perché i soldi dei precedenti colpi sono stati utilizzati dall'uomo per aprire un orfanotrofio in Brasile. In uno dei suoi colpi – citato dal giudice in aula – ha detto alla vittima che stava aiutando dei bambini poveri. Anche la sua parte del bottino in Liechtenstein sarebbe stata investita nella struttura dove, ha detto, «servivano dei generatori». I tre imputati si sono conosciuti in carcere, in Toscana. Dopo qualche chiacchiera su cosa fare una volta ritrovata la libertà «per guadagnare qualche cosa e campare», i tre si sono ritrovati a Livorno «e il tutto si è sviluppato in modo poco professionale», ha ammesso l'imputato più anziano. «Avevo contatti di oltre 17 anni e li ho ripresi»: quella pensata per il maggio di quest'anno altro non sarebbe stata che la ripetizione di una rapina, fallita, che il 76enne aveva già tentato. Noleggiata una vettura e divisi i ruoli, i tre si sono messi in viaggio verso la Svizzera. «Loro non erano del tutto consapevoli di quello che doveva succedere – ha aggiunto parlando degli altri due imputati –. Sono stati incentivati per qualche soldo, ma una cosa del genere potevo farla anche da solo». Sollecitato dal giudice sulla presenza delle pistole che potevano mettere in pericolo la vittima, il 76enne ha sottolineato che «non l'avrei mai fatto: ho commesso varie rapine in banca, per le quali ho pagato, entrando a viso scoperto e senza nulla». Studi liceali e una famiglia benestante alle spalle, il 76enne ha spiegato che «purtroppo la vita ti porta a conoscere delle persone che sono mascalzoni. Io non sono un mascalzone ma sono stato con loro». Durante gli anni di carcerazione «ho dimostrato che so fare anche altro: mi sono dato da fare, non sono uno sprovveduto».
Quella che i tre imputati avrebbero voluto compiere a Vaduz sarebbe veramente stata una rapina? E come si chiama l'imprenditore di cui non è mai stato fatto il nome? Il giudice lo ha chiesto apertamente all'imputato, ricordando che «nel mese di luglio ha ammesso di conoscerne il nome ma di non volerlo dire perché queste informazioni potrebbero essergli utili in futuro». Dopo aver affermato che «con la Procuratrice si è instaurato un rapporto fantastico, mi pareva scortese dare l'impressione che sono un angioletto», il 76enne ha aggiunto «di non poter fare nomi perché potrei provare vergogna nei loro confronti. Sicuramente incontrerò queste persone quando uscirò e dirò loro che siamo stati arrestati e di evitare di propormi affari del genere. In verità – ha infine ammesso l'imputato – poteva non essere una vera e propria rapina, c'era una sorta di accordo. L'imprenditore era un ispiratore, non una vittima». L'imputato ha invece risposto con un sorriso quando il giudice Quadri gli ha detto che «la Corte pensa che non ci ha proprio detto tutto». I tre imputati hanno dichiarato di «voler avere una vita serena e tranquilla». Il 76enne ha aggiunto che «la prossima volta che finirò sui giornali o in televisione non sarà per una rapina». La procuratrice lo ha esortato a «dedicare tutte le sue risorse ad altro, come la scrittura di un libro» dove raccontare le sue esperienze in carcere e i personaggi conosciuti.
La Corte ha, come detto, accettato la proposta di pena delle parti. «Anche se non è perfettamente chiaro quello che volevate commettere – sono state le parole del giudice –, dall'istruttoria è emerso che siete stati fermati a bordo di un'auto con armi, poi risultate false, e attrezzatura che sarebbe stata indiscutibilmente usata per quella che doveva sembrare una rapina». Il diritto svizzero «punisce anche prima del tentativo: non è necessario tentare una rapina, basta organizzarla. Fosse successo una volta sola, non ci troveremmo davanti alle Assise criminali, ma considerato che ci sono precedenti, e che precedenti, anche specifici, la pena è commisurata alla gravità di quanto avvenuto». Per la Corte, ha concluso Quadri, «non c'è stata la messa in pericolo di qualcuno: anche se andavate avanti, non sarebbe morto nessuno, se non di spavento».