Mps chiede di ancorare alla Costituzione il veto alle imprese che fanno affari con Paesi che non garantiscono i diritti umani, ambientali e sindacali
Lo chiamano il triangolo aureo. Gran parte dell'oro che approda in Svizzera - Paese che ogni anno importa oltre la metà del metallo giallo mondiale - viene raffinato nel Mendrisiotto. La sua provenienza è, però, sempre certificata? In questi anni più di una Ong lo ha messo in dubbio, attirando l'attenzione sull'opacità che circonda spesso l'origine degli approvvigionamenti della materia prima. L'ultima a squarciare il velo, il marzo scorso, su uno dei settori cardine dell'economia nazionale è stata Swissaid con un nuovo rapporto. Documento al quale, in questi giorni, si sono aggiunte le rivelazioni di Nzz e Rts, che hanno riacceso i riflettori sulla ditta Valcambi di Balerna, già al centro della denuncia nel 2015, della Dichiarazione di Berna (cfr. ‘laRegione del 10 settembre 2015). In effetti, le autorità federali avevano messo in guardia l'azienda sul rischio di intrattenere relazioni d'affari con industrie di Dubai.
Per Mps, il Movimento per il socialismo, è stata la conferma di quanto già evidenziato al Consiglio di Stato nel 2020 con una interpellanza. Atto parlamentare al quale il governo, lamentano oggi i deputati Matteo Pronzini e Giuseppe Sergi, aveva dato "risposte evasive". I due gran consiglieri sono tornati così alla carica, questa volta con una iniziativa costituzionale generica.
Alla luce degli ultimi fatti per il Movimento non resta che andare alla radice del problema Anche perché, si motiva, "purtroppo la Valcambi non è l’unica azienda presente sul territorio del Canton Ticino con attività commerciali o produttive in Paesi nei quali i diritti dell’uomo o/e la tutela dell’ambiente non sono rispettati. Basti pensare all’importanza del settore legato al commercio delle materie prime". Di conseguenza, la richiesta indirizzata all'autorità cantonale è chiara: inserire nella Cosituzione cantonale "un articolo che vieti la presenza sul territorio cantonale di attività commerciali o produttive di aziende che commerciano o producono in Paesi nei quali non siano garantiti i diritti umani, ambientali e sindacali in base ai parametri definiti delle organizzazioni internazionali o dalle autorità federali". Come dire, dare un taglio netto a chi non rispetta le regole.
In questi anni, però, il settore delle raffinerie ha sempre rimandato le accuse ai mittenti. A cominciare dalla Valcambi, la quale già nel 2015, reagendo alla Dichiarazione di Berna, ribadiva di dare "grande importanza all’impegno di tracciare il metallo prezioso in modo responsabile e trasparente". Confermando altresì di effettuare "continue verifiche e controlli di conformità di tutta la catena di approvvigionamento", di procedere a certificazioni periodiche e di rispettare in modo "rigoroso" indicazioni e principi dettati dagli organismi internazionali.
Cinque anni dopo, però, nel dicembre 2020, l'Ufficio centrale di controllo dei metalli preziosi conduce una ispezione all'interno della fabbrica di Balerna. Secondo quanto ricostruito da Rts e rilanciato dall'atto parlamentare, i funzionari scoprono oro di provenienza sospetta e che rinvia a una raffineria di Dubai, la MtM del gruppo Kaloti. Una impresa che sarebbe al centro di affari riconducibili al riciclaggio di denaro provento del traffico di droga e del commercio di oro proveniente dalle zone di guerra del Sudan. Nonostante la presa di distanza di Valcambi da quella realtà - la stessa su cui si era concentrata Swissaid e aveva richiamato l'attenzione Mps -, i funzionari, annota ancora l'emittente, si sono stupiti dal fatto che la ditta non abbia realmente tagliato i ponti, malgrado i rischi legati al metallo di quella filiera.
Per la Ong Swissaid non c’è che una via per uscirne e la parola chiave è ‘trasparenza’. Ciò che ci si attende, anche dalla politica parlamentare, è quindi l'introduzione di un obbligo di dovere di diligenza al quale richiamare le raffinerie in Svizzera, nel solco del rispetto dei diritti umani e ambientali. Mettendo, di fatto un veto all'importazione di oro ‘sporco’.
Dal canto suo l'Associazione svizzera dei fabbricanti e commercianti di metalli preziosi, che riunisce quindici aziende del settore, rivendica il fatto di essersi data una missione precisa e di aver adottato, di conseguenza, un codice di condotta a sostegno della filiera svizzera. Codice sottoscritto nel 2019 e che, come si legge sul portale dell'Associazione, "recepisce, in una visione comune, i principi di responsabilità" legati all'attività dei membri. In altre parole, importatori, raffinatori e fonditori, fabbricanti e utilizzatori di metalli preziosi si "impegnano a rispettare questi principi per sostenere l’eccellenza dell’intera filiera svizzera in termini di sviluppo sostenibile". E ciò include "in particolare l’etica commerciale, il rispetto rigoroso e lo sviluppo delle normative, la valorizzazione delle risorse, la protezione dell’ambiente e l’impegno di trasparenza della filiera". Ma la strada appare ancora lunga.