La testimonianza di una famiglia che ospita una mamma con bambina ed è ora confrontata con un trasferimento Oltreceneri che pare ‘non giustificato’
La guerra provoca sempre ferite. Per chi la combatte e per chi la subisce, nella paura delle bombe o nella fuga dalla propria terra. Un dolore grande che può farsi presente e reale anche a chi vive a oltre 2’000 chilometri di distanza. Come nella famiglia momò che dopo aver aperto la propria casa, e il proprio cuore, a una madre ucraina si trova ora a fare i conti con le battaglie... burocratiche. «La mamma con la bambina sono arrivate il 19 marzo – è il racconto di uno dei familiari ospitanti –. Il nostro principale obiettivo è stato quello di infondere loro una nuova tranquillità, ma ora con la prospettiva di un trasferimento in un centro d’accoglienza d’Oltreceneri questo equilibrio raggiunto potrebbe spezzarsi...». Perché questa necessità di trasloco? «Il percorso per poter avere un appartamento e guadagnare giustamente in privacy le porta a dover iscriversi al Punto di affluenza di Cadenazzo. L’annuncio al Paf permette, infatti, di attivare gli aiuti forniti dal Cantone Ticino e di usufruire di un alloggio garantito, in un primo momento, in un Centro regionale collettivo o in una struttura socio-sanitaria. Ed è qui che sta il problema». Quale? «Secondo quanto ci hanno detto le autorità competenti dovrebbero essere trasferite ad Airolo o ad Aurigeno! Capisce che avendo a due passi la Perfetta di Arzo preposta per i profughi, pensarle così lontano ci rammarica. Con loro abbiamo costruito un prezioso rapporto di amicizia. Se devo dirla tutta mi sto facendo il sangue amaro...».
Che sulla Montagna non ci sia posto per loro è confermato dal fatto, secondo nostre informazioni, che con la fine del mese quello che è solitamente un centro di studi e vacanze di proprietà della cittadina di Chiasso terminerà il suo compito ‘bellico’ (quale contraltare, sempre da notizie giunteci, l’allestimento per i profughi di una sorta di infopoint a Chiasso, affiancato ad altri due a Lugano e Bellinzona). Un destino comune continuerà a unirlo al conflitto russo-ucraino. Il motivo sta nel fatto che ad andarlo a occupare sarà l’Esercito che, in vista dell’esercitazione Odelscalchi in programma dal 13 al 18 giugno, l’avrebbe opzionato ben due anni fa. «Ci pare assurdo che siano proprio i militari ad andare a prendere il posto dei profughi quando uno dei loro compiti è proprio quello di essere al servizio in caso di crisi umanitaria – è lo sfogo della famiglia ticinese –. È questo un ulteriore elemento di una vicenda che ha del grottesco: la Confederazione ci invita ad accogliere e poi non ci sostiene in questa missione... Non solo abbiamo ricevuto negli ultimi giorni informazioni discordanti dalle autorità ma anche non veritiere, come quella di dover essere affiancati da un assistente sociale o di dover in prima persona cercare alla mamma e figlia un appartamento. Un casino allucinante di comunicazioni e contrordini... Con ciò abbiamo perso un mese prezioso. Poi c’è tutto l’aspetto finanziario... Se, per esempio, a Berna le famiglie che accolgono vengono aiutate economicamente, qui non abbiamo mai ricevuto niente; sono stati gli amici a mettersi a disposizione portandoci abiti, cibo, accompagnandole in commissioni varie».
A pesare sulla serenità di un generoso gesto che oggi appare ‘inutile’, anche la necessità di dover interrompere quella quotidianità così faticosamente guadagnata: da una parte la bambina ben inserita nel contesto scolastico del Mendrisiotto, dall’altra la giovane madre che qui era riuscita a integrarsi, proprio grazie all’appoggio della famiglia ospitante e dei vicini: «Dover cambiare regione significherebbe dover ricominciare tutto daccapo e far riaffiorare così ferite e mancanze, rese più penose dall’umiliazione del dover prendere e di non poter dare in cambio nulla. E allora mi chiedo, quale urgenza c’è di chiudere la Perfetta?». Nel distretto più a sud del Cantone continuano a vivere, infatti, molte famiglie ucraine, alcune cifre parlano del 60 per cento di quelle arrivate in Ticino: «Noi siamo entrati a far parte della loro vita e loro nella nostra. Conoscono il resto della nostra famiglia, i nostri amici, sono ben inserite, siamo il loro punto di riferimento. Non capisco davvero il permettere di farle stare da noi e poi impor loro un nuovo distacco. E purtroppo non possiamo far niente. Abbiamo anche cercato di metterle in lista d’attesa per Lugano. Non è questa la ‘normalità’ che si desidera per chi ha molto sofferto e continua a soffrire! Se ospitandole abbiamo fatto una bella azione, forse sarebbe stato meglio averle mandate subito in un centro... Forse adesso avrebbero avuto il loro appartamento. È brutto pensare così ma quale alternativa abbiamo? Questa è la regola? Evidentemente non è giusta! Possibile che dalla guerra dei Balcani a oggi non vi sia stato il tempo per dotarsi di un piano anticrisi pronto al bisogno?».
Un interrogativo che abbiamo girato al Servizio dell’informazione e della comunicazione del Consiglio di Stato: «Non siamo in possesso di dettagli sul caso specifico, ma ci è possibile fornire alcune indicazioni di carattere generale. Anzitutto teniamo a sottolineare che da parte delle autorità cantonali non viene imposto alcun obbligo di far capo a un centro di accoglienza gestito dal Cantone. Il dispositivo è a disposizione di tutte le persone che ne necessitano, ma la decisione di cambiare da una soluzione ‘privata’ a una coordinata dal Cantone secondo il Piano cantonale di accoglienza è una scelta del tutto volontaria che spetta alle persone in cerca di protezione in Ticino e, rispettivamente, alle famiglie ospitanti». Quanto ad Arzo? «È importante sottolineare come l’occupazione dei centri funzioni a ‘cicli’: all’inizio il centro accoglie un certo numero di persone che seguono insieme un percorso di formazione e possono in questo modo essere assistite nelle loro necessità. Il gruppo di persone rimarrà invariato fino all’attribuzione di una soluzione abitativa indipendente (la fase 3). Al momento Arzo accoglie una ventina di persone (nel picco dell’emergenza si aveva una capacità fino a 75 posti, ndr) che stanno già seguendo questo percorso, motivo per cui attualmente non vengono integrate nuove persone fino al prossimo ciclo».
Ciò, quindi, esclude per ora la possibilità per questa famiglia ucraina di restare nel Mendrisiotto? «Nel processo di attribuzione di una soluzione alloggiativa indipendente viene svolta una valutazione individuale che prende in considerazione una serie di parametri tra cui la sicurezza, la sanità, la scolarizzazione, il lavoro e, non da ultimo, la volontà della famiglia di voler tornare laddove vi è un legame esistente con il territorio. Questo significa che la collocazione finale delle famiglie ne terrà conto, tra cui anche i legami costruiti precedentemente. In questo senso verrà ricercata, nel limite del possibile, la migliore soluzione possibile che tenga presente delle necessità globali sia del Cantone sia della famiglia. Questo significa che la posizione geografica del centro collettivo in cui si è stati accolti non rappresenta un criterio unico e vincolante per la soluzione abitativa che verrà proposta alle persone e alle famiglie che hanno terminato il percorso all’interno di un centro collettivo».