All’indomani del varo ufficiale dell’Ala Sud, uno dei protagonisti della sanità ticinese rievoca i suoi esordi e si schiera a favore del servizio pubblico
Ala sud dell’Ospedale regionale della Beata Vergine: il professor Giorgio Noseda se la rimira con orgoglio. Assieme ai medici di famiglia del territorio ha avuto la possibilità di visitarla in anteprima (prima dell’inaugurazione ufficiale di ieri da parte delle autorità istituzionali). Che impressione le ha fatto?, gli chiediamo. «Ne sono molto contento», ci dice. «Quando abbiamo concepito quello che era il nuovo ospedale – alla fine degli anni Settanta, ndr – i criteri erano altri – tiene a fare memoria –. Ovvero servizi, Pronto soccorso, laboratorio, cure intense, sale operatorie e letti. Non avevamo previsto l’evoluzione del poliambulatorio». Che oggi è il ‘cuore’ della neonata struttura.
Vista con il filtro del tempo che passa la sua è una giustificata fierezza; perché l’Obv di Mendrisio è un po’ il ‘suo’ ospedale (è un momò); e perché nelle sue corsie ci ha vissuto buona parte della sua vita professionale. Per questo nosocomio ne ha condivise di battaglie con i colleghi camici bianchi. «Ho iniziato a lavorarci il primo ottobre del 1974», rievoca. Allora la struttura faticava a trovare giovani primari, pronti a raccogliere il testimone da Claudio Capelli. «Il vecchio primario non riusciva ad andare in pensione. Avevano pubblicato il concorso, ma non si annunciava nessuno». Come mai, ci si domanderà. Noseda l’aveva raccontato qualche anno fa durante una conversazione con la giornalista Giulia Fretta poi divenuta un libro (‘L’occhio che ascolta. Medicina ed empatia’) e lo ripercorre oggi per ‘laRegione’.
«L’Obv di allora non attraeva gli universitari – spiega Noseda –. Sul frontone dell’ospedale c’era ancora scritto: Ospizio della Beata Vergine. Il che evocava una struttura di tipo ottocentesco. Così ci chiamarono (a più riprese) a Berna: Michele Reiner – primario di Medicina interna fino al 1999, ndr – e io: eravamo recalcitranti, pure noi. Poi una sera a cena ci siamo detti: e se andassimo assieme? Magari riusciamo a cambiare qualcosa. E allora rientrammo in Ticino, accolti a braccia aperte dopo un viaggio avventuroso sulla mia Lancia blu. L’accordo avvenne senza troppe formalità (alla moda momò, ndr). Accettammo, però, a un’unica condizione: che fosse realizzato il nuovo ospedale. Allora esisteva già un progetto firmato dagli architetti Carloni, Snozzi e Vacchini, ma che venne messo da parte (anche per ragioni politiche, si rammenta nel libro, ndr)».
In effetti ce ne sono voluti di anni prima di veder varare il cantiere e di seguito costruire l’attuale Obv (che ora ha più di trent’anni). «Passavano gli anni e di ospedale nuovo non se ne parlava», ricorda Noseda. Per scuotere la politica ci volle un episodio eclatante. «All’epoca – ricostruisce il professore – non c’erano le cure intense come le concepiamo oggi. Il reparto era stato ricavato da uno stanzone che ospitava otto lungodegenti. Le infermiere fatte venire appositamente da Berna non ci volevano lavorare, viste le condizioni. Decidemmo così di chiedere al Consiglio di fondazione di concederci delle camerette a raggiera che avevamo individuato al primo piano. Ma nulla da fare. Allora un sabato mattina, dopo che le infermiere avevano ribadito la loro intenzione di dimettersi, trasferimmo d’imperio i letti».
La decisione non restò senza conseguenze. Quel moto di ribellione, però, alla fine riuscì, in un modo o nell’altro, a fare breccia nella politica del governo cantonale. Rilanciata la tematica del nuovo ospedale, il Consiglio di Stato riprende infatti la progettazione della struttura (era il 1977). Ne segue una lunga gestazione: «Abbiamo dovuto attendere fino agli anni Novanta – rende attenti l’ex primario –. A fermare di nuovo il cantiere, in effetti, intervenne il ‘buco’ da 100 milioni di franchi che in quegli anni si era creato nelle finanze cantonali. Mentre a Mendrisio avevamo davanti agli occhi la voragine incompiuta delle fondamenta del nosocomio». Poi l’aneddotica restituisce un’altra coincidenza fortuita (la presenza all’Obv di un Consigliere di Stato) che porta poi al via libera ai lavori.
Guardando ora al comparto sanitario di Mendrisio si stenta a credere a tutte quelle peripezie. Nel mezzo c’è, comunque, un altro passaggio cruciale che il professor Noseda ama ricordare: il varo della legge ospedaliera (nel dicembre del 1982) e la nascita dell’Ente ospedaliero cantonale. «È stata una svolta per la politica sanitaria ticinese che ha cambiato faccia alla medicina cantonale. Sono mutate le sue sorti». Da presidente (per quattro anni) della Commissione per la legge ospedaliera del Gran Consiglio e relatore della legge, Noseda ha vissuto il processo dall’interno. Lo stesso processo sfociato più tardi nell’ospedale multisito.
«Parliamo – esplicita Noseda – di un ospedale capace di offrire una medicina acuta, sia stazionaria che ambulatoriale. Fermo restando che i casi complessi vengono inviati nei centri specializzati, a Lugano o a Bellinzona. Da parte mia – ribadisce – difendo il concetto di ospedale multisito. Concetto – accenna – nel quale includo anche l’ostetricia – tema caldo all’Obv, ndr –. E ciò sebbene si assista al calo generalizzato del numero di parti. Una difesa la mia dettata pure da ragioni sociali. Pensiamo solo alla prossimità tanto all’ammalato (o alla partoriente) che ai suoi famigliari».
Non è un caso, insomma, se tra le proposte messe sul tavolo dell’Ente ospedaliero cantonale dal Gruppo di lavoro promosso dall’Associazione per la difesa del servizio pubblico (Asp), figura proprio il mantenimento, se possibile, dell’ospedale multisito (quale controcanto alla centralizzazione). In altre parole, si rilancia in una pubblicazione del marzo 2021, non vanno penalizzate le strutture di prossimità, Mendrisio e Locarno in particolare, ma anche Acquarossa e Faido. «Il sistema ticinese è vincente perché multisito e vicino alla popolazione», sottolinea ancora l’ex primario. «Il fatto che l’Obv venga potenziato è un segnale positivo», rimarca.
E stavolta la parola chiave per l’Ospedale regionale di Mendrisio, lo sguardo rivolto all’Ala Sud, è poliambulatorio. «Ci sono diverse ragioni alla base di questa filosofia – tiene a chiarire Noseda –. Prendiamo il Pronto soccorso, ad esempio: la nuova ala, dove si trovano tutti gli specialisti a portata di mano, darà modo di separare il caso grave da quello leggero, evitando attese di quattro o cinque ore. L’aspetto principale, in ogni caso, è quello di riuscire a offrire un tale servizio (il poliambulatorio, ndr) alla popolazione. Oggi, del resto, rappresenta una necessità: dal 30 al 50 per cento circa dei cittadini non ha più un medico di famiglia. Quando si ammalano, quindi, corrono al Pronto soccorso o si rivolgono alle strutture private (come i centri medici, ndr). L’Ala Sud è un poliambulatorio pubblico che, oltre alla cittadinanza, darà supporto ai medici di base nella diagnostica e nelle terapie grazie a una medicina di qualità, specialistica e ad apparecchiature all’avanguardia. Al contempo permetterà di porre il pubblico in concorrenza con i gruppi privati».
E Giorgio Noseda crede, oggi come ieri, nella forza del servizio pubblico, soprattutto nell’ottica di una riflessione sulla futura pianificazione ospedaliera cantonale (come nelle intenzioni del volumetto dell’Asp). Basta guardare, invita il professore, all’organizzazione dei dipartimenti sul modello dello Iosi, l’Istituto oncologico della Svizzera italiana – che ha un centro focale e varie sottosedi locali –, anche in funzione delle necessità e delle regole della facoltà di Biomedicina dell’Usi. Una realtà quest’ultima, che poggia, oltre che sulla qualità della medicina di casa, su due istituti come l’Istituto di ricerca in biomedicina – l’Irb fondato nel 1997 e partito nel 2000 – e lo Ior, l’Istituto oncologico di ricerca, nato dall’intuizione del professor Franco Cavalli («Ma lo sapete che l’oncologia ticinese con Cavalli è nata a Mendrisio?»). La vita di Noseda negli ultimi vent’anni è stata legata all’Irb, per il quale si è speso così come ha fatto per l’Obv. «Mi diranno che sono un po’ narciso – chiosa –, ma come si fa a non esserne fieri?».