Alla Corte locarnese Salah Hassan, condannato nel 2020 per sottrazione di minore. La difesa chiede una sostanziosa riduzione di pena.
Un padre preoccupato per il proprio bambino o un uomo egoista insensibile alle necessità del figlio? Si è sostanzialmente discusso di questo, stamattina, alla Corte di appello e revisione penale (Carp) di Locarno. Il caso è noto alle cronache: imputato è Salah Hassan, padre del piccolo Marwan, che nel 2015 portò con sé il figlio di neanche 6 anni nel proprio Paese d’origine. Per quasi un anno l’uomo è rimasto in Egitto e per la metà di questo periodo ha fatto perdere del tutto le proprie tracce, impedendo di fatto alla madre, una svizzera residente nel Mendrisiotto, qualsiasi contatto. Per questo, nel 2020 la Corte delle assise correzionali di Mendrisio lo ha condannato a sedici mesi sospesi condizionalmente.
«Chiedo che la pena venga aumentata a ventiquattro mesi» ha esordito il procuratore pubblico Pablo Fäh. «In primo grado la colpa è stata considerata medio-grave e dal mio punto di vista invece è grave, in quanto il comportamento successivo alla sentenza aggrava la posizione dell’imputato». La sua colpa sarebbe grave sia dal profilo oggettivo che soggettivo. «Ha sequestrato Marwan per quasi un anno, sradicandolo dal suo ambiente, facendo perdere per sei mesi le sue tracce, ha agito in modo egoista e premeditato. Di favorevole, unicamente, c’è il fatto che ha iniziato una terapia sebbene non l’abbia seguita con regolarità». Per Fäh, l’attenuante della grave angustia non può essere presa in considerazione: «Non ha agito con impeto, bensì pianificando. Inoltre, era un periodo nel quale il pretore aveva aumentato i diritti di visita. Sapeva che avrebbe dovuto avere pazienza, riconquistando fiducia di moglie e autorità. E se le decisioni prese dal pretore o dall’Arp non gli andavano bene, aveva delle alternative: poteva impugnarle». Stessa cosa per l’attenuante del sincero pentimento: «Dopo l’accaduto non ha minimamente dimostrato di aver capito la gravità dei fatti, nei verbali non c’è una volta la parola ‘scusa’».
«C’è tutto un percorso che porta al ravvedimento – la tesi invece del legale Stefano Pizzola –, chiedo quindi che venga riconosciuto il sincero pentimento». Durante l’arringa, la difesa ha ricostruito le ragioni che hanno portato Hassan a portare il figlio in Egitto. «È stato un divorzio litigioso. È una storia di dolore, senza voler sminuire quello della signora, bisogna dire che entrambi hanno sofferto molto. Con il divorzio, all’imputato vengono imposti i diritti di visita, ma sorvegliati, che sono umilianti. Prende diversi colpi e in lui si fa largo un senso di frustrazione e di ingiustizia: le autorità giudiziarie civili danno sempre ragione alla madre. In quel periodo Salah inizia a manifestare il desiderio di portarlo in Egitto. Si aggiunge a queste problematiche la dermatite del bambino».
Proprio la malattia del bambino è un elemento centrale della vicenda. «L’ex moglie non aveva adeguatamente informato l’imputato delle condizioni di salute del figlio, così quando ha visto le lenzuola insanguinate per lui è stato uno choc – ha detto Pizzola –. Lenzuola che poi ha persino portato in Pretura. In questo stato di angoscia è partito per l’Egitto: non sapeva che andasse dal medico, aveva una visione molto grave della situazione di suo figlio. Credeva che partire fosse l’unica soluzione. E in effetti Marwan in Egitto è stato curato e quando è tornato stava innegabilmente meglio». Salah sostiene infatti di essere partito per poter curare il figlio. «La documentazione medica agli atti dimostra però che il bambino era in cura in Ticino – la precisazione di Fäh –. Se fosse stata la reale motivazione non avrebbe avuto bisogno di restare in Egitto per quasi un anno e facendo perdere le sue tracce. La reale motivazione che emerge dagli atti e dal suo agire è che voleva dettare lui le condizioni sul diritto di visita con la madre del bambino. Non voleva che nessuno gli dicesse quando e come vedere suo figlio».
Altro punto delicato, i diritti di visita. Punto che ha portato Salah anche a inscenare una protesta lo scorso 23 dicembre davanti al Palazzo di giustizia di Lugano e all’Arp di Mendrisio. «È vero che prima dei fatti e per un lungo periodo i diritti di visita gli erano stati revocati, ma è perché continuava a non rispettare le disposizioni che gli venivano date. Inoltre, una volta tornato, si è fatto intervistare raccontando la sua versione, ha messo in piazza i problemi del figlio minorenne: non sono comportamenti esemplari» secondo il pp. «Applaudire sarcasticamente all’assistente sociale è un motivo sufficiente per togliere un diritto di visita? – si è chiesto invece Pizzola –. Mi sembra sproporzionato. E ricordo che a suo tempo anche l’accusatrice privata (l’ex moglie, ndr) aveva fatto delle manifestazioni davanti alla Manor con la foto... non mi sembra corretto rimproverargli questo comportamento. E oggi effettivamente Hassan non vede suo figlio da cinque anni e leggendo la sentenza dell’Arp sembrerebbe che l’intenzione sia di non farglielo vedere più. Ha quindi già subito gravi conseguenze per i suoi atti».
La difesa ha pertanto chiesto una sostanziosa riduzione di pena rispetto al primo grado, quando la giudice Francesca Verda Chiocchetti gli ha inflitto sedici mesi sospesi condizionalmente: «Al massimo una pena di novanta aliquote». Ventiquattro i mesi chiesti invece dalla pubblica accusa, pena che Fäh aveva proposto già in primo grado, senza opporsi alla sospensione condizionale ma per un periodo di prova di quattro anni. A decidere sarà la Corte, composta da Giovanna Roggero-Will (presidente), Rosa Item e Attilio Rampini (giudici a latere).