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Mette 17 milioni in banca e i soldi spariscono

Una sentenza del Tribunale federale svela l'increscioso caso capitato a un titolare di un conto: il denaro è stato girato altrove a sua insaputa

In sintesi:
  • La Pretura di Lugano dà ragione al cliente, mentre in Appello prevale l'istituto di credito
  • È stato accertato che gli averi della persona sono usciti attraverso la falsificazione della sua firma
La persona ha perso gran parte della somma versata all’inizio
(Ti-Press/Archivio)
23 novembre 2024
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Metti i soldi in banca, spariscono e l’istituto di credito non te li rende. L’inverosimile vicenda emerge da una recente sentenza pubblicata sul sito del Tribunale federale (Tf). Il versamento iniziale alla sede cittadina della Julius Bär risale a inizio 2007, quando una persona facoltosa apre un conto di poco più di 17 milioni di euro. Nel giro di meno di due anni, l’istituto bancario gira quasi tutta l’ingente somma di denaro verso altre destinazioni, senza il consenso del titolare, sulla base di documenti falsi. Quando il titolare del conto se ne accorge è tardi, riesce a recuperare solo una parte dei soldi. Pertanto comincia a rivendicare i suoi soldi, ma la banca non glieli restituisce. Però, dopo aver aspettato più di quindici anni, per poterli recuperare dovrà attendere ancora. Vediamo perché.

Non verificata l’autenticità degli ordini

La lunga vertenza innescata in seguito a vani tentativi di sistemare le cose in maniera bonale comincia con una petizione, attraverso la quale la persona convoca in giudizio la banca dinanzi al Pretore di Lugano, chiedendo il pagamento della differenza tra l’importo inizialmente versato sul conto e quello recuperato, ossia circa 15,6 milioni di euro. La petizione viene contestata dall’istituto di credito che chiede di respingerla. Dopo avere ordinato la semplificazione del procedimento in applicazione dell’articolo 125 del Codice di procedura civile, con la decisione incidentale del 25 maggio 2022, il pretore Francesco Trezzini accerta che la banca non aveva verificato l’autenticità degli ordini che le sono stati inviati e ha girato i soldi altrove. Il giudice della Pretura stabilisce che l’istituto di credito non ha rispettato le modalità convenute tra le parti nelle condizioni generali (quando è stato aperto il conto) e quindi ha dato luce verde a una serie di transazioni, commettendo una colpa grave nell’avere dato esecuzione alle istruzioni falsificate indirizzatele. Lo stesso Pretore ha inoltre accertato che il titolare del conto non era al corrente di tali istruzioni e non le aveva ratificate.

Al ricorrente ripetibili per 56’000 franchi

La banca contesta la sentenza di Trezzini e si appella alla II Camera civile del Tribunale d’appello del Cantone Ticino chiedendo e ottenendo che venisse respinta la petizione. Il titolare del conto, tramite il suo avvocato Filippo Ferrari, presenta un ricorso al Tribunale federale, che lo considera fondato e rimanda la vertenza alla II Camera civile del Tribunale d’appello del Cantone Ticino per un nuovo giudizio. Un nuovo giudizio che tenga conto anche delle censure sollevate dal ricorrente. A cominciare dalla violazione del diritto di essere sentito fino all’esame degli ordini di bonifico contestati. Non solo. I giudici di Mon Repos hanno accollato alla banca 46’000 franchi di spese giudiziarie e ordinato all’istituto di credito di versare 56’000 franchi al ricorrente, a titolo di ripetibili, per la procedura dinanzi al Tf. Insomma, il titolare del conto, come detto, dovrà attendere un’altra sentenza di secondo grado, per eventualmente rivedere i soldi che aveva depositato in banca. Oltre alla spiacevole situazione (per usare un eufemismo) in cui si trova la persona facoltosa che ha aperto il conto nell’istituto di credito e dopo 17 anni non sa ancora se e quando potrà disporre del suo denaro, c’è un altro aspetto rilevante in questa sentenza del Tf.

Lacune nel dispositivo di secondo grado

I giudici di Mon Repos, non potendo sanare le significative lacune contenute nel dispositivo di secondo grado, rinviano la causa alla II Camera civile del Tribunale d’appello del Cantone Ticino. La Corte cantonale, si legge nella sentenza del Tf, ha in effetti “citato l’esistenza del contratto di credito e le costituzioni in pegno delle polizze assicurative, rilevando in particolare che detto contratto rientrava negli atti falsificati. Nei considerandi del suo giudizio, la Corte cantonale non si è tuttavia espressa sulla portata di tali atti. Ha infatti esaminato la questione della diligenza della banca esclusivamente con riferimento agli ordini di bonifico contestati. Ha quindi vagliato le operazioni bancarie relative agli ordini che presentavano firme del ricorrente falsificate applicando la giurisprudenza in materia di bonifici bancari”. Tuttavia, mettono in evidenza i giudici di Mon Repos, “la Corte cantonale non si è espressa sulla rilevanza del contratto di apertura di una linea di credito e delle relative garanzie, questioni che erano state sollevate e tematizzate dal ricorrente nella risposta all’appello e già precedentemente addotte negli allegati dinanzi al Pretore. Non si è perciò pronunciata sugli obblighi di diligenza della banca con riferimento a tali atti”.

Firme false all’origine delle operazioni

Ma c’è di più. Il Tf scrive che “contrariamente all’opinione dell’opponente (la banca, ndr), le circostanze relative alla conclusione del contratto di credito, sul quale la firma del ricorrente è stata accertata come falsificata, possono essere rilevanti per la decisione sulla causa, potendo avere consentito l’importante passività del conto e permesso l’esecuzione di determinate operazioni litigiose. La Corte cantonale ha inoltre ritenuto che, per fondare le proprie accuse di negligenza nei confronti della banca, il ricorrente non aveva messo l’accento sul fatto che il saldo del suo conto fosse divenuto largamente passivo”. D’altro canto, si legge ancora nella sentenza, “il ricorrente sostiene che questo accertamento sarebbe arbitrario, giacché la questione dell’illiceità del contratto di credito e della costituzione dei pegni era stata sollevata sia nella risposta all’appello sia negli allegati dinanzi al Pretore. A ragione. Il saldo ampiamente passivo del conto è infatti riconducibile e strettamente connesso con la linea di credito contestata dal ricorrente”. Solitamente, il Tf sovverte una sentenza soltanto quando constata una violazione molto grave e accoglie solo una piccola percentuale di ricorsi, che si aggira sul 5-6%, perché è molto vincolato dalle sentenze delle istanze inferiori. È rarissimo che il Pretore decida in un modo, che la sentenza di secondo grado ribalti tale delibera e che infine il Tf la rimandi indietro perché sbagliata.