Per l’imputato che avrebbe acquistato un’arma sul darkweb pronto a sparare a figli e compagna la pubblica accusa ha chiesto tre anni di detenzione
Per tre mesi avrebbe pianificato un disegno criminale: uccidere la propria compagna e i propri figli. Protagonista del processo di ieri è un 48enne, che, tra marzo e maggio, incapace di sopportare psicologicamente l’allontanamento dei suoi familiari, in uno stato psichico provato, avrebbe cercato, attraverso il darkweb, una pistola e delle informazioni per riuscire nel suo intento omicida. All’origine, un disturbo bipolare e una situazione famigliare in profonda crisi. Ragioni che lo hanno portato dinnanzi alla Corte delle Assise criminali di Lugano, presieduta dal giudice Siro Quadri, con l’accusa principale di atti preparatori punibili di omicidio intenzionale. Per la procuratrice pubblica Margherita Lanzillo, il disegno criminale vi è stato e l’uomo andrebbe condannato a tre anni di carcere più un trattamento ambulatoriale per curare il suo disturbo psichico.
«Tante volte ero preso dal mio umore: erano sfoghi di rabbia». È quanto ha affermato in aula l’uomo, attualmente in carcerazione di sicurezza. «Non si trattava di vere intenzioni o ricerche che celassero un piano segreto – ha aggiunto –. I miei figli sono la ragione della mia vita, non li avrei mai feriti». Eppure, al Telefono Amico, a maggio, le sue parole andavano in tutt’altra direzione. “Ho letto l’articolo su quel padre che ha ucciso suo figlio e poi si è sparato (si riferisce al caso di cronaca nera avvenuto nel 2020 nel Torinese, ndr). Sono pronto a farlo anche io”. In un discorso contorto, ha evocato l’omicidio-suicidio, affermando che «è un monito: lui è il Cristo dei padri disperati. Mi ha fatto capire quanto un padre possa amare un figlio».
Per Lanzillo, il disegno criminale è chiaro. Lo ricostruisce nel dettaglio l’atto d’accusa. È attraverso un climax di emozioni che l’imputato si sarebbe spinto a scaricare un browser per accedere al darkweb con l’intento di acquistare un’arma da fuoco con la quale avrebbe voluto uccidere prima i suoi famigliari e poi sé stesso. Successivamente avrebbe contattato una società di servizi finanziari di criptovaluta per poter effettuare l’acquisto. Nei giorni seguenti avrebbe cercato di scoprire dove alloggiasse provvisoriamente l’ex compagna e di incontrare i figli nonostante la supercautelare che gli vietava di avvicinarli.
La situazione è precipitata quando l’uomo, nonostante le restrizioni imposte dalle autorità, ha costretto i suoi figli a incontrarlo. Apprendendo però da loro l’impossibilità di vedersi e sentirsi in futuro, se non quando l’Autorità regionale di protezione (Arp) avrebbe dato il suo consenso, l’imputato sarebbe emotivamente crollato, pensando di perderli definitivamente e il suo desiderio di ricongiungere la famiglia tragicamente infranto. Da lì, il 48enne, cittadino italiano domiciliato nel Luganese, ha iniziato a contattare con frequenza il Telefono Amico, al numero 143. In una chiamata, l’imputato ha detto agli operatori che alla prima occasione avrebbe voluto uccidere i figli e subito dopo suicidarsi, “come ultimo atto d’amore – aveva espresso –. Ho fatto testamento e ordinato una pistola e 100 proiettili che arriveranno molto presto”.
Azioni che lo vedono accusato del principale reato di atti preparatori punibili di omicidio intenzionale. Ma la lista di imputazioni non termina qui. Sull’uomo pendono inoltre le accuse di violenza e minaccia contro l’autorità, lesioni semplici – ripetute, aggravate e in parte tentate –, coazione, minaccia, violenza del dovere d’assistenza o educazione, disobbedienza a decisione dell’autorità, ingiuria e maltrattamento di animali. L’imputato avrebbe infatti anche picchiato la compagna nel corso di litigi sulla gestione della casa e dei figli, ma pure sulla situazione finanziaria della famiglia. Oppure ancora avrebbe minacciato i propri figli maltrattandoli e peccando così nel suo compito educativo. Una situazione famigliare descritta dalla pp come un vero e proprio «assedio psicologico». Tutte accuse che respinge al mittente.
«Sfruttando il proprio ruolo ha eretto una struttura famigliare dominata dal suo potere di controllo – ha esordito Lanzillo durante la sua requisitoria –. Non vi era un dialogo reciproco ma solo le sue imposizioni. Ha relegato la sua compagna in un ruolo di sudditanza e quando si è trovato da solo, il suo impero è crollato. La sofferenza e il senso di perdita sono i sentimenti che lo hanno dominato e che lo hanno spinto alla disperazione e a concepire pensieri mirati a compiere un atto irreparabile».
L’imputato, del resto, non ha negato di essersi trovato in una situazione psichica da lui dichiarata ‘disperata’. Tuttavia, per la pp, le parole da lui rivolte al 143 non possono essere valutate come una richiesta d’aiuto e di desistenza. «L’uomo era in grado di intendere e volere in quei momenti». Inoltre, ha aggiunto, «quando ha riportato il suo nominativo agli operatori del Telefono Amico, lo ha fatto affinché si leggesse il suo nome sulla stampa, come il padre di Torino di cui ha parlato e si è addirittura arrabbiato con gli operatori dopo che lo hanno segnalato». Non era dunque, secondo l’accusa, un contorto tentativo di richiedere aiuto, come ha detto il 48enne. «Ho rotto l’anonimato – questa la versione dell’imputato – dicendo che avrei fatto del male ai miei figli perché era un modo per chiedere aiuto e far scattare la segnalazione». I passi per avvicinarsi a concretizzare il suo piano omicida, secondo l’accusa, sono stati fatti. «La preparazione del piano – ha spiegato Lanzillo – è stata precisa e le sue azioni sarebbero potute concretamente terminare in una strage».
Alla domanda della procuratrice pubblica se prova rammarico o riconosce di aver sbagliato qualcosa da parte della procuratrice pubblica, il 48enne ha subito risposto: «Sono un uomo incensurato e che cerca di stare nella legalità. È successo quello che doveva succedere, è il destino che sceglie le carte. Di cosa mi devo scusare? Di aver dato due buffetti ai bambini? Non ho ucciso e di questo sono fiero. Mi sento un uomo con la ‘u’ maiuscola. Ho chiesto aiuto». E addirittura, ha detto, «in carcere mi sento come un pesce fuor d’acqua». Ciò su cui accusa e imputato sono concordi è la necessità di una cura per il suo disturbo bipolare. L’obiettivo dell’uomo è quello di riappacificarsi con i propri figli e tornare a essere una famiglia. Motivo per il quale la pp non ha richiesto l’espulsione dal territorio elvetico: «Allontanarlo ulteriormente dai figli sarebbe controproducente alla sua guarigione».
Per l’avvocato Paride De Stefani, patrocinatore della ex compagna, «preoccupa la costante minimizzazione degli atti compiuti dall’imputato. Per questo un trattamento stazionario è fondamentale: sia per lei, che per i figli che per la collettività». Dopodiché, l’avvocato ha espresso piena adesione alla richiesta di pena formulata da Lanzillo. Alla difesa, rappresentata dall’avvocata Chiara Villa, toccherà esprimersi in arringa giovedì mattina.