Cinque imputati, un sesto rinviato a giudizio alle Correzionali. L’accusa: aver venduto vino di bassa qualità spacciandolo per prodotto di alto standard
Truffa e contraffazione di merci. Queste sono le due principali ipotesi di reato, e a queste se ne aggiungono altre minori, alle quali dovranno rispondere cinque imputati coinvolti a vario titolo nella cosiddetta ‘truffa del vino’, emersa cinque anni fa. Il Tribunale penale cantonale ha infatti predisposto il rinvio a giudizio per i cinque. Gli accertamenti del Ministero pubblico e della Polizia cantonale sono terminati già a novembre del 2021 e il processo dinanzi alla Corte delle Assise criminali è stato fissato su tre giorni, dal 20 al 23 giugno prossimi.
Ricordiamo, in estrema sintesi, i fatti contestati dall’inchiesta coordinata dalla procuratrice pubblica Raffaella Rigamonti. A seguito di una segnalazione in magistratura di una persona attiva nel ramo, è stato infatti scoperto un presunto giro di vendita di vino comune spacciato come prodotto di alta qualità. Gli imputati avrebbero agito con ruoli differenti. In particolare, due svizzeri residenti nel Luganese di 64 e 69 anni e che sono stati i primi a essere arrestati, tramite diverse società avrebbero messo in commercio del vino comune, etichettandolo come vino di alta qualità e vendendolo a piccoli punti vendita, grandi catene commerciali e prestigiose enoteche. Gli altri accusati hanno 29, 55 e 69 anni e sono uno svizzero e due italiani, tutti residenti in Ticino. Una sesta persona, ci conferma il Ministero pubblico, è stata invece rinviata a giudizio dinanzi alla Corte delle Assise correzionali. Questo procedimento si svolgerà nella forma del rito abbreviato.
Il vino in questione non era ticinese ma importato. Stando a nostre informazioni, uno dei due luganesi era infatti il titolare di una ditta di import-export di vini. La provenienza del vino ritenuto contraffatto dagli inquirenti sarebbe italiana, in particolar modo la base sarebbe stata in Piemonte, nell’Astigiano. E proprio con l’Italia ha a che vedere il filone principale dell’inchiesta, dove a seguito degli arresti ticinesi la Procura di Asti, la Guardia di finanza e i Carabinieri di Canelli hanno portato all’arresto di diverse altre persone per un totale di una ventina di indagati. Una vera e propria presunta banda, che in due anni – dal 2016 al 2018 – avrebbe falsificato oltre 50’000 bottiglie. E con ruoli ben definiti: chi produceva, chi contraffaceva e chi vendeva, oltre che in Italia e in Svizzera anche in Germania. Al centro dei fatti, un 43enne dell’Astigiano titolare di un’azienda del settore.
Sia gli inquirenti ticinesi sia quelli italiani hanno sequestrato una gran mole di bottiglie: più di 15’000 in Italia e alcune migliaia in Ticino. E poi, altre confische in Italia: una ventina di cliché per stampare le etichette, più di 10’500 etichette singole, quasi 8’400 contrassegni statali per le denominazioni Doc e Docg, oltre 165’000 capsule di chiusura per bottiglie con marchi o loghi di aziende vitivinicole, oltre 200 chili di sostanze vietate in enologia, quali aromi, sciroppi e coloranti, che servivano per camuffare le bevande. Vini che venivano spacciati per cantine storiche e pregiate, come ad esempio Gaja, Antinori, Ornellaia. E che in Svizzera sono state rivendute anche da grandi catene commerciali, come ad esempio Otto’s. Parti lese, che non a caso nel procedimento che andrà in scena fra meno di un mese a Lugano si sono costituite accusatori privati.
E a loro volta vittime si erano detti, quantomeno inizialmente, anche una parte degli imputati che avevano affermato di essere stati a loro volta ingannati da chi il vino lo imbottigliava in Italia, non sapendo dunque che quello che stavano trattando fosse in realtà un vino comune. Resta da vedere in aula se queste tesi saranno ripresentate dalle difese e se, eventualmente, la Corte le accoglierà. Di certo c’è che, stando a nostre informazioni, uno degli imputati ha chiesto, tramite il proprio legale, la sospensione del processo a suo carico. «Sì, confermo di aver inoltrato una richiesta in tal senso alla Corte – dice, interpellato dalla ‘Regione’, l’avvocato Pierluigi Pasi –. Abbiamo chiesto la sospensione del procedimento sulla base del fatto che il mio cliente è stato già assolto in Italia nell’ambito di un’indagine della Procura di Asti apparentemente sullo stesso complesso di fatti». Potrebbe insomma entrare in ballo il principio del ne bis in idem, secondo il quale una persona non può essere processata due volte per i medesimi fatti.