laR+ Luganese

Una vita in Svizzera, famiglia curda rischia l’espulsione

La storia di una 30enne, cresciuta a Lugano e tornata 5 anni fa dopo un periodo nel Paese d’origine, del marito e dei figli. Chiesto il caso di rigore

I figli di Mezhde hanno 8 e 4 anni: il grande aveva 3 anni quando sono arrivati in Svizzera, il piccolo è nato è qui
7 gennaio 2023
|

Un mese per andarsene. Dal Paese nel quale si è cresciuti, nel quale si vive e si lavora, nel quale è nato un figlio e nel quale abitano i genitori e le sorelle. «E per andare dove?», si chiede sconsolata Mezhde.

Per certi versi simile a quella di Khaleda e Satayesh, la mamma e figlia afghane della Valle Verzasca, è la storia di un’intera famiglia curda irachena che a inizio dicembre ha ricevuto la decisione di espulsione dalla Svizzera. La Segreteria di Stato della migrazione (Sem) ha stabilito come termine di allontanamento il 2 gennaio. Intanto, tramite l’avvocata che li segue è stato chiesto il caso di rigore – per permettere a Mezhde, al marito e ai figli di 8 e 4 anni, di restare a Lugano –, mentre sorelle e amici la stanno sostenendo anche con una raccolta firme.

Diciassette anni in Svizzera

«Siamo originari di Duhok (città di circa 300’000 abitanti nel nord del Paese, ndr), nel Kurdistan iracheno. Nel 2000 siamo arrivati in Svizzera, io avevo 8 anni, e ho terminato qui le scuole dell’obbligo e un apprendistato di parrucchiera – racconta in un italiano praticamente perfetto –. Nel 2013 le mie sorelle hanno ottenuto la cittadinanza svizzera, io no perché nel 2012 sono tornata a Duhok e mi sono sposata». Mezhde aveva fatto richiesta anche lei per naturalizzarsi, ma un primo tentativo non era andato in porto. «Nel 1991 (durante la Guerra del Golfo, ndr) i miei genitori sono scappati in Iran e io sono nata in un campo profughi, a differenza delle mie sorelle più giovani che sono nate in ospedale a Duhok e hanno un regolare atto di nascita. Io no». «Forse ci avrebbe impiegato più tempo delle sorelle, ma avrebbe ottenuto anche lei la cittadinanza – valuta l’avvocata Immacolata Iglio Rezzonico –. È comunque identificata».

In Iraq minacce di morte al marito

Alla sfortuna si aggiunge l’amore, perché Mezhde nel 2012 torna in Iraq per sposarsi e in tal modo perde il diritto di richiedere la cittadinanza svizzera. A Duhok rimangono cinque anni, durante i quali «venivamo comunque spesso in Svizzera, ogni sei mesi, perché la mia famiglia è rimasta a vivere qui». E perché voi non siete tornati una volta sposati? «Nel 2012 in Kurdistan la situazione era abbastanza tranquilla. Mio marito aveva un buon lavoro, per un’azienda petrolifera. Vivevamo bene. Nel 2014 però è iniziata la guerra civile. C’era paura, ma non abbiamo pensato di venire in Svizzera. Le cose sono peggiorate nel 2017, perché mio marito ha cominciato a ricevere delle minacce di morte, chiamate e messaggi anonimi. Pensavano fosse una spia. Ci siamo rivolti alla polizia, abbiamo sporto denuncia, ma purtroppo non ci hanno aiutati. Anzi. Non sapevamo più che fare. Grazie al lavoro di mio marito avevamo un visto europeo e senza pensarci troppo siamo scappati in Germania».

Prima doccia fredda nel 2020, poi il ricorso

Da lì sono subito arrivati (regolarmente) in Svizzera e l’8 gennaio 2018 hanno depositato la richiesta d’asilo politico. La Sem, appellandosi agli accordi di Dublino, nel maggio 2020 ha sostanzialmente stabilito il rientro della famiglia in Germania, dove non avevano chiesto asilo. Poi la procedura è stata riaperta, ma «ci avevano detto che non credevano alle nostre motivazioni. Però senza approfondire. Avevamo portato le prove delle minacce, la denuncia che abbiamo fatto in polizia, la decisione delle autorità irachene che dicevano che mio marito non avrebbe dovuto lasciare il Paese in quanto sotto controllo». La decisione negativa della Sem è stata dunque impugnata e la risposta del Tribunale amministrativo federale (Taf) è arrivata solo un mesetto fa. Spiazzando tutti.

‘Mio figlio ha molta paura’

«Siamo molto preoccupati in questi giorni, in particolare per mio figlio maggiore – confessa Mezhde –. Mi sono rivolta anche a uno psicoterapeuta per lui. Ho paura che quel che sta succedendo possa influenzarlo nel rendimento scolastico, in quello sportivo, nelle relazioni con i coetanei. Lo vedo molto stressato, mi sta facendo tante domande. È una situazione molto pesante, perché da mamma non so che risposte dargli. Lui è cresciuto qui sapendo che questo è il suo Paese». E sa cosa potrebbe succedere? «Sì. I primi giorni ho cercato di nasconderglielo, ma al doposcuola ha sentito qualcosa e poi ha cominciato a farmi domande. È un bambino intelligente e ha capito. Ho dovuto raccontargli la verità. Adesso ha molta paura, crede che potrebbe arrivare la polizia da un momento all’altro e portarci via».

‘I bambini hanno la loro vita qui’

«Nella decisione hanno scritto che i bambini potrebbero andare a vivere nel loro Paese perché sicuramente non sono ancora integrati in Svizzera essendo così piccoli. Ma questo non è vero. I bambini hanno la loro vita qui, qui hanno i nonni e le zie, qui hanno gli amici, la scuola, lo sport. Io stessa, essendo cresciuta qui, con loro parlo italiano. Le mie sorelle idem. Non hanno approfondito come viviamo veramente. Il grande aveva 3 anni quando siamo venuti qui e il piccolo è nato a Lugano». «Partendo dal falso presupposto che avrebbero vissuto di più in Iraq che qui – aggiunge la legale – il Taf ha scritto che per i bambini non sarebbe un cambiamento così radicale, perché essendo iracheni i genitori avrebbero tramandato solo le proprie tradizioni ai piccoli. Ma, oltre che un pregiudizio, è falso: sono ultra-integrati. Ma come tutta la famiglia del resto».

Raccolte circa 550 firme

Mezhde e il marito in effetti hanno numerosi amici e sono economicamente autosufficienti, entrambi lavorano. «Ma adesso ho paura che ci impediscano di continuare a lavorare, sarebbe assurdo. Questa situazione è un trauma per tutta la famiglia – confida la donna –. Siamo molto uniti, ci vediamo tutti i giorni, non vogliamo separarci». Per scongiurare questo scenario, poco prima di Natale è stata avviata anche una raccolta di firme, che – dalle sorelle all’Associazione di pallacanestro nella quale milita il figlio, tocca un po’ tutta la comunità che li circonda – ha già raccolto oltre 550 adesioni.

‘Politica dei due pesi e delle due misure’

L’alternativa sarebbe il ritorno a Duhok. «L’Iraq non è nella lista dei Paesi sicuri stilata dal Dipartimento federale di giustizia e polizia – osserva Iglio Rezzonico –, ma la prassi giurisprudenziale del Taf negli ultimi anni attesta che nel Kurdistan iracheno ci sarebbe sicurezza. Ma questa tranquillità è solo su carta, sono Paesi molto instabili, basti vedere cosa sta succedendo ora in Iran. E poi, ai turisti svizzeri viene sconsigliato di recarsi nel Paese per svariati motivi, dai sequestri agli attentati, sulla base dei consigli di viaggio del Dipartimento federale degli affari esteri. È la solita politica dei due pesi e delle due misure».

Palla nel campo del Consiglio di Stato

Che speranze ci sono dunque ora per la famiglia? «Ci sono tutti i presupposti per il caso di rigore – secondo l’avvocata –. Abbiamo depositato l’istanza chiedendo l’effetto sospensivo e che possano continuare a lavorare in attesa della decisione». Spetta ora al Consiglio di Stato dare un preavviso favorevole (o meno), che servirà come indicazione alla Sem per la decisione finale. Intanto Mezhde vive queste settimane con una forte pressione psicologica: «Abbiamo paura di quel che succederà, ci sentiamo trattati come se fossimo dei delinquenti».

Leggi anche: